Sentenza n. 87 del 1969
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SENTENZA N. 87

ANNO 1969

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Aldo SANDULLI, Presidente

Prof. Giuseppe BRANCA

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni BATTISTA BENEDETTI

Prof. Francesco PAOLO BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo MICHELE TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 201 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (legge fallimentare), promosso con ordinanza emessa il 18 aprile 1967 dal tribunale di Roma nel procedimento civile vertente tra Bellone Aurelio e la Compagnia mediterranea di assicurazioni, iscritta al n. 235 del Registro ordinanze 1967 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 307 del 9 dicembre 1967.

Visti gli atti di costituzione della Compagnia mediterranea di assicurazione e d'intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udita nell'udienza pubblica del 20 marzo 1969 la relazione del Giudice Nicola Reale;

uditi l'avv. Massimo Severo Giannini, per la Compagnia di assicurazioni, ed il sostituto avvocato generale dello Stato Cesare Soprano, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

Con atto di citazione del 30 novembre 1965 il signor Aurelio Bellone conveniva davanti al tribunale di Roma, sezione del lavoro, la Compagnia mediterranea di assicurazioni, società per azioni, posta in liquidazione coatta amministrativa con decreto del Presidente della Repubblica in data 17 settembre 1964 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 28 successivo) e dichiarata in stato di insolvenza con sentenza del tribunale di Roma del 7 ottobre 1964.

L'attore esponeva che fin dal 10 febbraio 1954 era stato assunto alle dipendenze della Società convenuta con qualifica di capo ufficio, ma di essere stato adibito sempre a mansioni superiori fino alla data del licenziamento, intimatogli dal commissario liquidatore il 31 agosto 1965.

Asseriva però di non aver mai percepito, nel corso del rapporto di lavoro, il trattamento retributivo corrispondente alle prestazioni effettivamente svolte e che, in conseguenza, anche le somme a lui liquidate, a titolo di indennità di anzianità e di parziale mancato preavviso, ma accettate con riserva e non a transazione e saldo, risultavano inferiori a quelle dovutegli.

Per tali differenze di stipendio e di indennità l'attore chiedeva che la Società convenuta fosse, ai sensi degli artt. 36 della Costituzione e 2103 del Codice civile, condannata al pagamento della somma di lire 29.000.000.

Il commissario liquidatore, costituitosi avanti al tribunale di Roma, in via pregiudiziale eccepiva l'inammissibilità o quanto meno l'improcedibilità della domanda in pendenza della liquidazione coatta, assumendo che, per l'accertamento dei crediti vantati contro la Compagnia mediterranea di assicurazioni, il Bellone avrebbe dovuto avvalersi della procedura di cui agli artt. 208 e 209, in riferimento agli artt. 201, primo comma, e 52, secondo comma, della legge fallimentare.

L'attore replicava deducendo l'illegittimità costituzionale di dette norme e il tribunale, ritenutane la pregiudizialità ai fini della decisione della causa, con ordinanza 18 aprile 1967, sollevava la questione di legittimità costituzionale specificamente dell'art. 201, primo comma, della legge fallimentare, nella parte in cui richiama il secondo comma dell'art. 52, in relazione agli artt. 207, 208 e 209 della legge fallimentare: e ciò in riferimento all'art. 24, primo comma, della Costituzione.

Il collegio ha osservato che, delle due fasi delle quali consta la procedura di liquidazione coatta, l'una necessaria e di natura amministrativa, l'altra giurisdizionale ma affatto eventuale, la prima può avere uno svolgimento la cui durata non é perentoriamente delimitata dalla legge, con la conseguenza che, fin quando l'elenco dei creditori ammessi al riparto dell'attivo o respinti non sia stato depositato nella cancelleria del tribunale, resta precluso l'esercizio delle azioni individuali, a tutela dei rispettivi crediti. Nel che, a giudizio del tribunale, sarebbe da scorgere grave limitazione, non giustificata da preminenti esigenze di pubblico interesse, al diritto dei singoli alla tutela giurisdizionale. Limitazione che in pratica potrebbe rendere estremamente difficoltoso l'esercizio di un diritto e perfino cagionarne la perdita nel caso in cui questo fosse assoggettato ad un termine di decadenza inferiore a quello concesso al liquidatore per la formazione dello stato passivo.

L'ordinanza, notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri il 13 ottobre 1967 ed alle parti il 16 ottobre, previa comunicazione ai Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato, é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 307 del 9 dicembre successivo.

Davanti a questa Corte si é costituita la Compagnia mediterranea di assicurazioni, in persona del commissario liquidatore avvocato prof. Ludovico Pazzaglia, rappresentato dall'avvocato prof. Massimo Severo Giannini.

La difesa di detto ente, con deduzioni depositate il 29 dicembre 1967, assume essere la questione non fondata.

In riferimento al carattere ordinatorio del termine di 90 giorni da quello del provvedimento di liquidazione, imposto, dall'art. 209 della legge fallimentare, al commissario per l'accertamento e il deposito dello stato passivo dell'impresa, osserva che la posizione dei creditori potrebbe essere pregiudicata non già dallo svolgimento della fase preliminare amministrativa, disciplinata anche per quanto riguarda la sua durata dalla norma che si asserisce incostituzionale, ma soltanto a seguito di un eventuale "abuso applicativo" di essa. La questione sollevata dal tribunale di Roma non avrebbe cioé attinenza con l'art. 24 della Costituzione, ma rifletterebbe il più ampio problema dei comportamenti omissivi degli organi pubblici, involgendo il tema della efficienza dei rimedi preveduti dall'ordinamento, per ovviare alle conseguenze di tali comportamenti in danno dei terzi. Ma, fuori di tale problematica, la sospensione dell'esercizio delle azioni individuali, contro l'ente sottoposto a procedura di liquidazione concorsuale, non sarebbe configurabile come pregiudizio a carico degli stessi creditori, bensì come necessaria conseguenza del regime concorsuale dell'istituto in esame.

Identiche conclusioni la difesa dell'ente ha formulato, con memoria 6 marzo 1969, ponendo in rilievo, tra l'altro, la sostanziale analogia funzionale delle operazioni di formazione dello stato passivo nel fallimento e nella liquidazione coatta, la cui natura amministrativa non costituirebbe ostacolo alla protezione giurisdizionale.

Difficoltà non potrebbero neppur derivare, si é osservato, dal mancato rispetto da parte del liquidatore del termine previsto per l'esplicazione delle sue attribuzioni, nel caso di interferenza di un termine di decadenza apposto all'esercizio del diritto soggettivo (come nella specie é stabilito dall'art. 2103 ricordato nell'ordinanza). Non si può infatti escludere che, in pendenza della liquidazione coatta, le ragioni dei creditori possano trovare tutela, oltre che mediante l'ammissione al passivo e in concorso di tutti gli aventi diritto, anche a seguito della proposizione di domande giudiziali dirette contro l'ente debitore, allo scopo precipuo di impedire la decadenza e per gli effetti che la relativa pronunzia potrebbe avere dopo la conclusione della procedura concorsuale.

Davanti a questa Corte é intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato dall'Avvocato generale dello Stato, con atto di costituzione del 29 dicembre 1967.

L'Avvocatura dello Stato ha affermato che la questione di costituzionalità prospettato dal tribunale deve ritenersi non fondata.

L'art. 201 della legge fallimentare, nel disciplinare la situazione dei creditori in sede di liquidazione coatta amministrativa, richiama puramente e semplicemente la disciplina del fallimento, discostandosi dalle direttive di questa soltanto nelle disposizioni concernenti i poteri del liquidatore, configurati in funzione del maggior interesse della pubblica amministrazione alla eliminazione del turbamento creato, nell'economia nazionale, dal dissesto di aziende di pubblico interesse specificamente determinate dalla legge.

Nella liquidazione amministrativa incidono invero le stesse esigenze che determinano la sospensione delle azioni individuali in pendenza del fallimento; né la diversità degli organi preposti, nell'una e nell'altra procedura concorsuale, alla formazione dello stato passivo, potrebbe condurre a diverso trattamento dei creditori sotto l'aspetto della tutela giurisdizionale garantita dall'art. 24 della Costituzione.

Quanto poi alla possibilità che termini di decadenza interferiscano, nel corso della liquidazione, col divieto di azioni individuali per l'accertamento dei crediti, l'Avvocatura dello Stato ha sostenuto che il sistema offre adeguata protezione ai creditori, legittimandoli a proporre o l'istanza di collocazione nello stato passivo, la quale sostituisce a tutti gli effetti giuridici la richiesta giudiziale nel periodo in cui questa é sospesa, oppure le azioni ordinarie, salvo successiva sospensione del giudizio fino all'esaurimento delle operazioni di formazione dello stato passivo.

Anche sotto questo particolare aspetto, quindi, non sussisterebbe contrasto della norma denunziata con l'ordinamento costituzionale.

Nella pubblica udienza di discussione del 20 marzo 1969 i difensori delle parti hanno illustrato oralmente le accennate conclusioni.

 

Considerato in diritto

 

Il tribunale di Roma, in riferimento all'art. 24, primo comma, della Costituzione, con l'ordinanza 18 aprile 1967, ha sollevato la questione di costituzionalità dell'art. 201 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (la così detta legge fallimentare), nella parte in cui richiama il secondo comma del l'art. 52 e rende applicabili all'accertamento dei crediti, anche se muniti di prelazione, nei confronti dell'ente assoggettato a liquidazione coatta amministrativa, le norme riguardanti la formazione dello stato passivo stabilite dal capo V, titolo II, del predetto testo, con gli adattamenti di cui agli artt. 207, 208 e 209.

In virtù di questa normativa, previe le comunicazioni del commissario liquidatore ai creditori ed ai terzi e le osservazioni, istanze e domande a lui rivolte da questi soggetti, ai sensi e nei modi di cui agli artt. 207 e 208 citati, spetta al liquidatore procedere alla iscrizione dei crediti ammessi e di quelli respinti, nonché delle domande, di cui al secondo comma dell'art. 207, accolte o respinte, in un apposito elenco da depositarsi nella cancelleria del tribunale, nel termine di novanta giorni dal provvedimento di liquidazione.

Dalla data del deposito, nell'ulteriore termine di quindici giorni, sono proponibili, avanti l'autorità giudiziaria, le opposizioni dei creditori esclusi o ammessi con riserva e le impugnazioni contro i crediti ammessi al passivo.

La fissazione di un termine non perentorio concesso al liquidatore e la conseguente eventualità che le operazioni, spesso complesse, per la formazione dello stato passivo non siano esaurite in breve periodo di tempo, importerebbero patente violazione del precetto costituzionale per cui tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi (art. 24, primo comma, Cost.). Ciò in quanto, ha osservato il tribunale, nel corso delle predette operazioni, é precluso ai creditori l'esercizio di azioni individuali, con evidente loro pregiudizio, che può perfino concretarsi nella perdita del diritto alla prestazione.

La questione non é fondata.

La legittimità della normativa denunziata deve essere esaminata nel contesto della disciplina della liquidazione coatta amministrativa, la quale riflette le stesse finalità pubblicistiche cui sono rivolte le imprese ad essa soggette: finalità che giustificano gli interventi della pubblica amministrazione, mediante la vigilanza sugli organi, nonché l'ingerenza e i controlli sulle attività delle imprese medesime.

Queste, come é noto, sebbene si avvalgano prevalentemente di strutture ed attività ricadenti nella sfera del diritto privato, involgono tuttavia molteplici interessi o perché attengono a particolari settori dell'economia nazionale, in relazione ai quali lo Stato assume il compito della difesa del pubblico affidamento, o perché si trovano in rapporto di complementarità, dal punto di vista teleologico e organizzativo, con la pubblica amministrazione.

Per le accennate ragioni non può non competere a questa il presiedere alla liquidazione coatta di tali imprese, anche quando ne sia dichiarato lo stato di insolvenza, designandone l'organo liquidatore e controllando l'attività dello stesso, compresa quella diretta, in particolare, all'accertamento del passivo.

Dal fatto che simile accertamento, per le norme della legge fallimentare, in parte integrative delle leggi speciali e in parte (come quella dell'art. 209) inderogabili, si svolga a cura di un commissario liquidatore, senza l'immediato intervento dell'autorità giudiziaria, diversamente da quanto previsto per l'ordinaria procedura fallimentare, e che nel frattempo i singoli creditori trovino limiti all'esperimento di azioni individuali, non deriva alcuna sostanziale violazione del precetto costituzionale dell'art. 24, primo comma.

Queste limitazioni, ancorché attinenti ad un procedimento di natura amministrativa, inteso a dare attuazione al criterio della par condicio creditorum, in aderenza alla stessa funzione concorsuale della liquidazione coatta, sono disposte per il tempo strettamente necessario al liquidatore per la redazione dell'elenco dei creditori e si risolvono nella improponibilità soltanto temporanea delle domande giudiziali.

Con particolare riferimento ai dubbi espressi in proposito nell'ordinanza si osserva che, da quanto sopra, non può derivare pregiudizio alla realizzazione delle pretese, che invece i creditori medesimi hanno potestà di far valere avanti l'autorità giudiziaria nei modi e nei tempi prescritti dalla legge fallimentare, rimanendo comunque escluso, in virtù dei principi generali dell'ordinamento, che un temporaneo ma indeclinabile e tassativo impedimento all'esercizio dell'azione, disposto dalla legge, possa condurre alla perdita del diritto soggettivo: ipotesi estrema che il tribunale ha ritenuto di prospettare, ancorché la fattispecie sottoposta al suo esame ne escludesse l'attualità.

D'altro canto si deve rilevare che l'obbligatorio espletamento di preventivi procedimenti amministrativi, oltre tutto preordinati, anche se non esclusivamente, ad una composizione extra giudiziale dei conflitti con i terzi creditori, non può dirsi che comporti una illegittima limitazione della tutela giurisdizionale.

Questa Corte ha ripetutamente affermato che la tutela rimane egualmente garantita, quando sia concesso al titolare del diritto di agire non immediatamente al sorgere di esso, ma in un secondo tempo, se ciò risponde a esigenze di ordine generale e a superiori finalità di giustizia: quelle appunto che giustificano, nella valutazione del legislatore, il contestuale esame, in sede amministrativa, delle ragioni di tutti i creditori concorrenti alla distribuzione dell'attivo dell'impresa in liquidazione coatta.

Quanto poi al detrimento che, secondo il tribunale, può derivare ai creditori dal mancato rispetto del termine, che una indiscussa interpretazione ritiene ordinatorio, apposto dall'art. 209 allo svolgimento delle attribuzioni del commissario liquidatore, si osserva che a ridurne la portata non mancano opportuni rimedi.

Un ritardo, infatti, non determinato dalla quantità e complessità delle situazioni esaminate e che non sia quindi inevitabile, ma sia invece da ascrivere a negligenza o risulti comunque imputabile al liquidatore, potrebbe dar luogo ad azione di responsabilità a suo carico (art. 199 della legge fallimentare), a parte le sanzioni penali richiamate dall'art. 237 della stessa legge. Ed occorre appena far cenno alla possibilità che i creditori, e per essi anche il comitato di sorveglianza (nelle funzioni di cui all'art. 204 della legge fallimentare), si avvalgano di tutti i mezzi consentiti dalle leggi, quali denunzie, istanze o diffide, volte a ottenere l'intervento degli organi di vigilanza e controllo della pubblica amministrazione competente, perché sollecitino il liquidatore e, se del caso, provvedano alla sua revoca e conseguente sostituzione.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata, in riferimento all'art. 24, primo comma, della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 201 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, sulla "Disciplina del fallimento, del concordato preventivo dell'Amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa", proposta con l'ordinanza del tribunale di Roma citata in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 2 aprile 1969.

Aldo SANDULLI  -  Giuseppe BRANCA  -  Michele FRAGALI  -  Costantino MORTATI  -  Giuseppe CHIARELLI  -  Giuseppe VERZÌ  -  Giovanni BATTISTA BENEDETTI  -  Francesco PAOLO BONIFACIO  -  Luigi OGGIONI  -  Angelo DE MARCO  -  Ercole ROCCHETTI  -  Enzo CAPALOZZA  -  Vincenzo MICHELE TRIMARCHI  -  Vezio CRISAFULLI  -  Nicola REALE 

 

Depositata in cancelleria il 17 aprile 1969.