Sentenza n. 37 del 1969

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SENTENZA N. 37

ANNO 1969

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Aldo SANDULLI, Presidente

Prof. Giuseppe BRANCA

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni BATTISTA BENEDETTI

Prof. Francesco PAOLO BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo MICHELE TRIMARCHI

Dott. Nicola REALE

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale della legge 22 luglio 1966, n. 607, recante "Norme in materia di enfiteusi e prestazioni fondiarie perpetue", promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 15 dicembre 1966 dal pretore di Spoleto nel procedimento civile vertente tra Mantucci Domenico ed altri e la Mensa vescovile di Norcia, iscritta al n. 17 del Registro ordinanze 1967 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 51 del 25 febbraio 1967;

2) ordinanze emesse il 23 dicembre 1966 dal pretore di Civitacastellana nei procedimenti civili vertenti tra Formini Vincenza ed altri e Paolucci Pietro, iscritte ai nn. 32, 33, 34, 35, 36 e 37 del Registro ordinanze 1967 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 77 del 25 marzo 1967;

3) ordinanza emessa il 9 febbraio 1967 dal pretore di Vitulano nei procedimenti civili riuniti vertenti tra Borselleca Salvatore e Marcarelli Cosimo e tra gli eredi di De Mezza Pietro e Sala Ermanno, iscritta al n. 65 del Registro ordinanze 1967 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 102 del 22 aprile 1967;

4) ordinanza emessa il 2 gennaio 1967 dal pretore di Benevento nel procedimento civile vertente tra Cardillo Amelia e Latino Claudio ed altro, iscritta al n. 74 del Registro ordinanze 1967 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 120 del 13 maggio 1967;

5) ordinanza emessa il 13 febbraio 1967 dal pretore di Lercara Friddi nel procedimento civile vertente tra Lucania Salvatore e Lima Mancuso Salvatore, iscritta al n. 80 del Registro ordinanze 1967 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 132 del 27 maggio 1967;

6) ordinanza emessa il 7 aprile 1967 dal pretore di Mazara del Vallo nel procedimento civile vertente tra Sala Rosaria e Cusumano Leonarda ed altri, iscritta al n. 95 del Registro ordinanze 1967 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 157 del 24 giugno 1967;

7) ordinanze emesse il 5 aprile 1967 dal pretore di Velletri nel procedimento civile vertente tra Masella Nello e Cianfriglia Adele ed altri, l'11 aprile 1967 dal pretore di Guardia Sanframondi nel procedimento civile vertente tra Di Paola Filomena e Serrapochiello Agnese, il 1 aprile 1967 dal pretore di Terracina nel procedimento civile vertente tra Del Monte Lorenzo ed altri e Bona Emma ed altri, il 3 maggio 1967 dal pretore di Bisacquino nel procedimento civile vertente tra Starrabba Gaetano e Di Giovanna Antonino, l'11 marzo 1967 dal pretore di Sezze nel procedimento civile vertente tra Spirito Salvatore e Bernetti Maria Felice ed altri e il 20 maggio 1967 dal pretore di Trapani nel procedimento civile vertente tra Schifano Filippa e Scio Antonio, iscritte ai nn. 101, 104, 108, 110, 111 e 113 del Registro ordinanze 1967 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 170 dell'8 luglio 1967;

8) ordinanze emesse il 20 maggio 1967 dal pretore di Napoli nel procedimento civile vertente tra Giordano Francesca e Venturino Giuseppa ed altri e il 6 maggio 1967 dal pretore di Alatri nei procedimenti civili riuniti vertenti tra Boccardi Ambrogio ed altri e l'Ospedale San Benedetto di Alatri ed altri, iscritte ai nn. 123 e 127 del Registro ordinanze 1967 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 190 del 29 luglio 1967;

9) ordinanze emesse il 20 e il 28 febbraio, 1 e 6 marzo 1967 dal pretore di Anagni nei procedimenti civili vertenti tra Castigli Pio e Ciangola Amedeo ed altri, Pellegrini Teresa e Di Fabio Adalberto, Morgia Salvatore e Apolloni Fernando, Giancone Amedeo e Ciangola Amedeo ed altri; il 18 maggio 1967 dal pretore di S. Stefano di Camastra nel procedimento civile vertente tra Aragona Pignatelli Anna Maria e Buono Francesco ed altri; il 7 giugno 1967 dal pretore di Pozzuoli nel procedimento civile vertente tra Pisano Biagio ed altri e Del Gaudio Luigi e il 1 giugno 1967 dal pretore di Paliano nei procedimenti civili riuniti vertenti tra Nori Pietro ed altri e D'Ottavi Mario ed altri, iscritte ai nn. 131, 132, 133, 134, 137, 144 e 146 del Registro ordinanze 1967 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 208 del 19 agosto 1967;

10) ordinanze emesse il 3 febbraio 1967 dal pretore di Palermo nel procedimento civile vertente tra Ciprì Stefano ed altri e Imbornone Aurelio ed altri; il 6 aprile e il 21 giugno 1967 dal pretore di Frosinone nei procedimenti civili vertenti tra Cestra Luigi ed altri e Cestra Alessandro ed altri e tra Capogna Orlando e Pietro e Galluzzi Genio; il 23 marzo 1967 dal pretore di Reggio Calabria nel procedimento civile vertente tra Maiolino Giacomo e Marcianò Giuseppe ed altri e il 19 maggio 1967 dal tribunale di Palermo nel procedimento civile vertente tra Cacciatore Giuseppina ed altro e Pottino Gaetano, iscritte ai nn. 148, 154, 155, 158 e 160 del Registro ordinanze 1967 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 221 del 2 settembre 1967;

11) ordinanze emesse il 13 giugno 1967 e l'11 luglio 1967 dal pretore di Solopaca nei procedimenti civili vertenti rispettivamente tra Ciervo Michele e Di Mezza Filomena e Maria Teresa e tra Volpe Antonio e Borruto Domenica; il 16 giugno 1967 dal pretore di Albano Laziale nel procedimento civile vertente tra Puccini Torello ed altri ed il Capitolo della Basilica di San Giovanni in Laterano; il 18 luglio 1967 dal pretore di Bianco nel procedimento civile vertente tra Strangio Francesco ed altri e la Prebenda parrocchiale di Santa Maria della Pietà di San Luca, iscritte ai nn. 174, 175, 183 e 197 del Registro ordinanze 1967 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 258 del 14 ottobre 1967;

12) ordinanze emesse il 14 luglio 1967 dal pretore di Isernia nel procedimento civile vertente tra Rosselli Michele ed altri e la Parrocchia di San Michele Arcangelo di Monterodeni ed il 18 luglio 1967 dal pretore di Torre Annunziata nel procedimento civile vertente tra Matrone Costantino e la Parrocchia di Santa Maria del Soccorso all'Arenella di Napoli, iscritte ai nn. 205 e 211 del Registro ordinanze 1967 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 271 del 28 ottobre 1967;

13) ordinanza emessa il 22 giugno 1967 dal tribunale di Agrigento nel procedimento civile vertente tra Urso Pasquale e Casa Giuseppe ed altri, iscritta al n. 224 del Registro ordinanze 1967 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 282 dell' 11 novembre 1967;

14) ordinanze emesse il 5 luglio 1967 dal pretore di Marano di Napoli nel procedimento civile vertente tra l'Opera nazionale combattenti e la Mensa vescovile di Aversa ed il 20 luglio 1967 dal pretore di Ramacca nel procedimento civile vertente tra Cannizzo Gaetano e Oliveri Giuseppe ed altri, iscritte ai nn. 228 e 233 del Registro ordinanze 1967 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 295 del 25 novembre 1967;

15) ordinanze emesse il 2 agosto 1967 dal pretore di Terracina nel procedimento civile vertente tra l'Opera nazionale combattenti ed il Comune di Terracina; il 30 giugno 1967 dal pretore di Ariano Irpino nel procedimento civile vertente tra Schiavo Giovanni e gli Ospedali riuniti di Napoli e il 16 ottobre 1967 dal pretore di Genzano di Roma in tre procedimenti civili vertenti tra Bernardi Regina, Bernardi Isolina, Savini Filippo ed il Capitolo di San Pietro in Vaticano, iscritte a nn. 232, 236, 247, 248 e 249 del Registro ordinanze 1967 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 307 del 9 dicembre 1967;

16) ordinanze emesse il 7 ottobre 1967 dal pretore di Erico nel procedimento civile vertente tra Virgilio Giovanni Battista ed altro e Catania Salvatore; il 3 maggio 1967 dal tribunale di Trapani nel procedimento civile vertente tra Piazza Nicolò ed altri e Sammaritano Salvatore ed il 6 settembre 1967 dal pretore di Bisacquino nel procedimento civile vertente tra Starrabba Gaetano e Borzì Giuseppe, iscritte ai nn. 252, 253 e 261 del Registro ordinanze 1967 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 321 del 23 dicembre 1967;

17) ordinanza emessa il 17 ottobre 1967 dal tribunale di Mistretta nel procedimento civile vertente tra Pignatelli Aragona Anna Maria e Maiorana Giuseppe ed altri, iscritta al n. 262 del Registro ordinanze 1967 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24 del 27 gennaio 1968;

18) ordinanza emessa il 20 ottobre 1967 dal tribunale di Palermo nel procedimento civile vertente tra Severino Filippo e Barbera Giovanna, iscritta al n. 277 del Registro ordinanze 1967 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 50 del 24 febbraio 1968;

19) ordinanza emessa il 1 marzo 1968 dal pretore di Bojano nel procedimento civile vertente tra Di Iorio Costanza e Di Sisto Luigi e Carmine, iscritta al n. 44 del Registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 113 del 4 maggio 1968;

20) ordinanza emessa il 22 maggio 1968 dal pretore di Torre del Greco nel procedimento civile vertente tra Garzilli Francesco ed altri e la Mensa arcivescovile di Napoli ed altro, iscritta al n. 117 del Registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 222 del 31 agosto 1968;

21) ordinanza emessa il 22 luglio 1968 dalla Corte d'appello di Catania nel procedimento civile vertente tra Impellizzeri Lucia ed altri e Saglimbene Sebastiano, iscritta al n. 187 del Registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 261 del 12 ottobre 1968.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri e di costituzione della Mensa vescovile di Norcia, della Mensa arcivescovile di Napoli, di Paolucci Pietro, Marcarelli Cosimo, Sala Ermanno, Lima Mancuso Salvatore, Starrabba Gaetano, Ciangola Amedeo, Di Fabio Adalberto, Apolloni Fernardo, Aragona Pignatelli Anna Maria, Imbornone Aurelio ed altri, Cestra Vincenzo ed altri, Galluzzi Genio, Marcianò Giuseppe e Giuseppa, Pottino Gaetano e Impellizzeri Lucia ed altri (concedenti) e dell'Opera nazionale combattenti, di Borselleca Salvatore, eredi di De Mezza Pietro, Masella Nello, Piori Biagio, Ciancone Amedeo, Nori Pietro ed altri, Ciprì Stefano ed altri, Mastrantoni Vincenzo, Velecchia Assunta, Mastracci Natale, Mastracci Umberto, Casa Giuseppe ed altri e Garzilli Francesco ed altri (enfiteuti);

udita nell'udienza pubblica del 4 dicembre 1968 la relazione del Giudice Luigi Oggioni;

uditi gli avvocati Salvatore Orlando Cascio, Vincenzo Panuccio, Riccardo Leone, Giuseppe Todini, Giuseppe Abbamonte, Alberto Melito, Sebastiano Mastrobuono ed Alfredo Marziano, per i concedenti, gli avvocati Pietro Gasparri, Alessandro De Feo, Mario Diana, Guido Trapani, Antonio Ptzolu, Corrado Noulian, Achille Prinzivalli e Rosario Mazzone, per gli enfiteuti, e il sostituto avvocato generale dello Stato Francesco Agrò, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

Con legge 22 luglio 1906, n. 607, furono stabilite nuove norme in materia di enfiteusi e prestazioni fondiarie perpetue, rapporti e miglioria e contratti agrari atipici con prevalenti elementi del rapporto enfiteutico, norme con le quali, tra l'altro, si fissarono le misure massime dei canoni ragguagliate all'ammontare del reddito dominicale del fondo relativo, determinato ai sensi del D.L. 4 aprile 1939, n. 589, e moltiplicato per 12 giusta il decreto 12 maggio 1947, e si stabilì il prezzo di affrancazione in una somma pari a quindici volte il canone annuo così determinato. Si istituì anche una speciale procedura che prevede una fase iniziale nella quale il pretore competente, su domanda dell'affrancante e dietro esibizione anche di un semplice atto di notorietà a comprova dell'esistenza della prestazione, determina il capitale di affranco e, previo il deposito di questo capitale, dispone, con ordinanza non revocabile e da trascrivere a cura della cancelleria, l'affrancazione del fondo con la conseguenza dell'estinzione dell'enfiteusi o della prestazione fondiaria nei confronti di chiunque, limitandosi a dare atto sommariamente nel provvedimento delle osservazioni, delle riserve e delle eccezioni delle parti. Entro tre mesi dalla notifica dell'ordinanza é ammesso ricorso degli interessati alla sezione speciale per i contratti agrari del tribunale per la contestazione del diritto all'affrancazione, per la riduzione o l'integrazione del capitale d'affranco e per l'attribuzione dell'intera somma o di parte di essa.

Con un folto gruppo di ordinanze sono state sollevate in via incidentale, nel corso di procedimenti civili, varie questioni di legittimità costituzionale della detta legge, sia nel suo testo intero, sia in singole disposizioni.

Si é anzitutto lamentato che la legge stessa sarebbe, nel suo complesso, viziata da eccesso di potere perché, pur senza affermarlo, mirerebbe tuttavia praticamente, ed in contrasto con l'indirizzo legislativo precedente, alla soppressione degli istituti contemplati, stabilendo condizioni di affrancazioni inique a danno dei concedenti, e si porrebbe altresì in contrasto con quei fini di utilità sociale che gli istituti stessi potrebbero seguitare a svolgere.

L'art. 1 della legge, poi, stabilendo il limite massimo dei canoni e delle prestazioni perpetue si porrebbe anzitutto in contrasto con l'art. 2 della Costituzione perché, sovrapponendosi alla libera volontà delle parti, finirebbe col vulnerare i diritti inviolabili dell'uomo. Inoltre la disposizione in esame sarebbe in contrasto col principio di eguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione perché, dovendosi applicare ai canoni enfiteutici perpetui o temporanei ed alle prestazioni fondiarie perpetue, finirebbe col sottoporre ad eguale disciplina situazioni diverse. E tale vizio si paleserebbe ancor più evidente in relazione alla disparità di trattamento che la norma in parola sanzionerebbe in genere a favore degli enfiteuti, e in particolare nel caso delle enfiteusi urbane, per gli squilibri collegati agli enormi aumenti di valore delle aree fabbricabili.

La nuova disciplina, poi, sarebbe specificamente lesiva sia della libertà di iniziativa economica privata garantita dall'art. 41 della Costituzione, perché si sovrapporrebbe con effetto retroattivo alle pattuizioni liberamente stipulate dalle parti, sia del diritto di proprietà privata, garantito dall'art. 42, secondo comma, della Costituzione, perché rappresenterebbe una vera e propria espropriazione, senza il concorso di motivi di interesse generale, e dietro corresponsione di un indennizzo irrisorio, essendo ragguagliato al reddito dominicale come sopra determinato e cioé, concretamente, ad una somma grandemente inferiore a quella risultante dal precedente sistema.

Censure di illegittimità, per contrasto con la garanzia di difesa di cui all'art. 24 Cost., sono state poi sollevate contro il procedimento previsto dalla legge per ottenere l'ordinanza di affrancazione del pretore.

Invero, escludendo l'esame delle eventuali deduzioni dei concedenti in quella sede, e trasferendolo nella fase successiva, che si svolge su ricorso dell'interessato avanti alla sezione specializzata del tribunale, la nuova procedura inciderebbe sul principio del contraddittorio e invertirebbe l'onere della prova, attribuendo peraltro all'ordinanza emessa dal pretore efficacia immediatamente abolitiva del diritto del concedente.

La procedura in esame é stata anche censurata per contrasto col principio di eguaglianza, in quanto si risolverebbe in un vantaggio per l'enfiteuta, che vedrebbe prese in considerazione le sue istanze immediatamente, a differenza del concedente, che potrebbe azionare il proprio diritto solo nell'ulteriore corso del giudizio; nonché per contrasto con gli artt. 111 Cost., concretantesi in relazione alla pretesa inoppugnabilità dell'ordinanza di affrancazione, e 113 Cost. per la pretesa esclusione della garanzia di tutela giurisdizionale dei diritti.

La prevalenza dell'affrancazione sulla devoluzione sancita dagli artt. 8 e 9 della legge poi, secondo alcune ordinanze, dovrebbe interpretarsi come una sostanziale espropriazione, anche sotto questo aspetto disposta in contrasto con gli interessi generali, mentre dovrebbe altresì ravvisarsi, nelle limitazioni che con ciò verrebbero apportate ai diritti quesiti dei concedenti, un contrasto non solo con l'art. 41 Cost. ma anche con gli artt. 3 e 24, per la denegata difesa che la suddetta indiscriminata prevalenza comporterebbe a danno sempre dei concedenti.

L'art. 13 della legge, che estende espressamente la disciplina degli articoli precedenti agli altri rapporti a miglioria e agli altri rapporti atipici con prevalenza degli elementi dell'enfiteusi, sarebbe particolarmente in contrasto col principio di eguaglianza perché unificherebbe irrazionalmente sotto una eguale disciplina situazioni sostanzialmente diverse.

L'art. 15, connesso con l'art. 1, sarebbe suscettibile delle medesime censure e, inoltre, violerebbe il principio di eguaglianza anche perché, disponendo che i nuovi canoni sono applicabili dall'annata agraria 1962-1963 salvo i casi in cui il relativo versamento sia già stato effettuato, concreterebbe una discriminazione collegata ad un elemento di fatto puramente casuale e cioè all'avvenuto pagamento o meno del canone.

Infine anche l'art. 18 concernente l'abolizione della rivedibilità periodica del canone, in quanto connesso con gli artt. 1 e 15, contrasterebbe per le stesse ragioni con l'art. 3 Cost. ed attuerebbe una inammissibile limitazione della libertà di iniziativa economica privata, contrastante con l'art. 41 Cost.

I profili di illegittimità testé delineati, sono stati ampiamente sviluppati nelle difese di quei concedenti che si sono costituiti e precisamente dalla Mensa vescovile di Norcia, rappresentata e difesa dall'avv. Giorgio Fermanelli nel giudizio promosso con ordinanza del pretore di Spoleto del 15 dicembre 1966; da Paolucci Pietro, rappresentato e difeso dall'avv. Giuseppe Zappalà, nel giudizio promosso con ordinanze del pretore di Civitacastellana del 23 dicembre 1966; da Imbornoni Aurelio, rappresentato e difeso dall'avv. Salvatore Orlando Cascio nel giudizio promosso con ordinanza del pretore di Palermo del 3 febbraio 1967; da Marcarelli Amelia e Sala Ermanno, rappresentati e difesi dall'avv. prof. Luigi Cariota Ferrara, nel giudizio promosso con ordinanza del pretore di Vitulano del 9 febbraio 1967; da Lima Mancuso Salvatore, rappresentato e difeso dagli avvocati prof. Salvatore Orlando Cascio e Giuseppe Lopes, nel giudizio promosso con ordinanza del pretore di Lercara Friddi del 13 febbraio 1967; da Di Fabio Adalberto e Ciangola Amedeo, rappresentati e difesi dagli avvocati prof. Giuseppe Abbamonte, Virgilio Andrioli, Salvatore Orlando Cascio e Giuseppe Todini, e da Apolloni Fernando, rappresentato e difeso dall'avv. Alberto Melito, nel giudizio promosso con quattro ordinanze del pretore di Anagni del 20 e 28 febbraio, dell'1 e 6 marzo 1967; da Marcianò Giuseppe ed altri, rappresentati e difesi dagli avvocati prof. Salvatore Orlando Cascio e Vincenzo Panuccio, nel giudizio promosso con ordinanza del pretore di Reggio Calabria del 23 marzo 1967; da Cestra Vincenzo ed altri, rappresentati e difesi dagli avvocati Giuseppe Abbamonte, Salvatore Orlando Cascio, Giuseppe Todini e Virgilio Andrioli, nel giudizio promosso con ordinanza del pretore di Frosinone del 6 aprile 1967; da Starrabba Gaetano, rappresentato e difeso dall'avv. Salvatore Orlando Cascio e dall'avv. Giuseppe Lopes, nel giudizio promosso con ordinanza del pretore di Bisacquino del 3 maggio 1967; da Aragona Pignatelli Anna Maria, rappresentata e difesa dall'avv. Giovanni Orgera, nel giudizio promosso con ordinanza del pretore di S. Stefano di Camastra del 18 maggio 1967; da Pottino Gaetano, rappresentato e difeso dall'avv. Riccardo Leone, nel giudizio promosso con ordinanza del tribunale di Palermo del 19 maggio 1967; da Galluzzi Genio, rappresentato e difeso dagli avvocati Giuseppe Abbamonte, Salvatore Orlando Cascio, Giuseppe Todini e Virgilio Andrioli, nel giudizio promosso con ordinanza del pretore di Frosinone del 21 giugno 1967.

Particolarmente si é riaffermato l'assunto vizio di eccesso di potere legislativo, ravvisando una palese difformità tra gli scopi apparenti della legge, relativi al conseguimento di una maggiore equità nei rapporti agrari, e quelli che in realtà verrebbero conseguiti facilitando di fatto la speculazione edilizia e procurando vantaggi a favore di enfiteuti grandi imprenditori e dando luogo alla inevitabile conseguenza di una prevedibile eliminazione dal mondo giuridico dell'istituto dell'enfiteusi.

La violazione del principio di eguaglianza si porrebbe in evidenza in particolare, tra l'altro, per l'attribuzione al colono miglioratario della proprietà del fondo alle stesse condizioni dell'enfiteuta, il quale acquisterebbe il diritto ad un prezzo maggiore di quanto non faccia il primo e per la varietà stessa delle convenzioni che regolano le colonie miglioratarie, che si differenzierebbero per la misura e il tipo dei canoni, e per la durata e la natura dei diritti del colono. A proposito della censura in esame si é fatto anche ripetutamente richiamo alla sentenza n. 30 del 1966 della Corte, che ha riconosciuto la particolare natura dei rapporti a miglioria e la loro peculiarità e varietà per quanto riguarda apporto economico dei concedenti e dei coloni.

La violazione della libertà di iniziativa economica privata garantita dall'art. 41 Cost. si renderebbe altresì manifesta per la mancanza nella legge di qualsiasi programma o indirizzo economico generale, nel qual caso soltanto sarebbero ammissibili le limitazioni disposte dalla legge impugnata.

Sotto un profilo opposto, si sostiene dalla difesa di alcuni concedenti, giungendo tuttavia ad analoga conclusione, che la legge in esame sarebbe l'ultima di una serie (15 settembre 1964, n. 756; 26 maggio 1965, n. 590; 25 febbraio 1963, n. 327; 22 luglio 1966, n. 607) tutte tendenti a limitare la libertà di iniziativa economica sul campo dei rapporti agrari. Si tratterebbe quindi di una legge facente parte di un vero e proprio programma economico, ma in difetto di quei fini sociali cui a norma dell'art. 41, terzo comma, leggi del genere dovrebbero tendere. E si dovrebbe ravvisare altresì una violazione del diritto di proprietà garantito dall'art. 42 Cost., nella compressione della libertà contrattuale, che del diritto stesso sarebbe espressione.

Nei riguardi dello speciale procedimento statuito nella legge per l'affrancazione si é osservato, fra l'altro, che l'affrancante sarebbe abilitato, in virtù della ordinanza pretorile, ad alienare il fondo anche prima della eventuale pronuncia della sezione specializzata del tribunale di cui all'art. 5 della legge impugnata.

Aspetti particolarmente anomali della procedura stessa sarebbero poi costituiti dalla esiguità del termine di tre mesi concesso per la detta contestazione, che sarebbe comunque di gran lunga inferiore ai termini della prescrizione ordinaria che condizionano in via generale l'esercizio dell'azione; dal valore non recuperatorio ma meramente risarcitorio dell'eventuale contestazione del diritto dell'enfiteuta, e dalla presunzione assoluta di fondatezza della pretesa del colono che la legge avrebbe sanzionato.

Sono stati altresì prospettati taluni aspetti di illegittimità costituzionale non compresi nelle ordinanze di rinvio di cui sopra e precisamente si é sostenuta la violazione degli artt. 2, 4 e 35 della Costituzione per il contrasto che la nuova disciplina comporterebbe con la funzione sociale del lavoro che ogni cittadino ha il dovere di svolgere e con la esigenza volta ad assicurare la proprietà della terra a chi la lavora.

Si é altresì sostenuta ,tra l'altro, la violazione degli artt. 25, 46 e 47 della Costituzione con riferimento al principio del giudice naturale ed a quello della tutela del risparmio.

L'Avvocatura dello Stato, nei giudizi in cui si é costituita, osserva, quanto all'assunto vizio di eccesso di potere legislativo, che trattasi di critiche mosse dalla legge contrastante col criterio essenzialmente discrezionale ed incensurabile del Parlamento. Obbietta poi la non pertinenza del richiamo all'art. 2 della Costituzione, che riguarderebbe i diritti della persona umana in quanto tali, e non i diritti di natura esclusivamente economica come quelli in esame. Per negare poi la sussistenza delle violazioni del principio di eguaglianza dedotte, con riferimento alla differenza di trattamento che la legge farebbe fra l'enfiteuta ed il concedente, l'Avvocatura riafferma che la disciplina in esame sarebbe il risultato di un apprezzamento discrezionale del legislatore sulla essenziale diversità delle loro situazioni, come tale incensurabile in questa sede, e comunque rifletterebbe una regolamentazione applicabile per tutti i destinatari in modo eguale.

Per quanto concerne la violazione dello stesso principio dedotta in relazione alla uniformità di trattamento che, in forza della legge impugnata, verrebbe ad applicarsi a rapporti giuridici di diversa natura, osserva che l'assimilazione delle colonie miglioratarie alle enfiteusi trarrebbe origini dall'art. 1 della legge n. 327 del 1963, che a certe condizioni aveva dichiarato perpetui i rapporti stessi in uso nel Lazio, estendendo ad essi le norme contenute nel titolo IV del libro terzo del codice civile, e nella legge 11 giugno 1925, n. 998, sulle affrancazioni dei canoni, censi ed altre prestazioni perpetue. Pertanto, coerentemente il legislatore avrebbe dichiarato l'applicabilità della nuova disciplina ai rapporti stessi, tanto più che dalla citata sentenza n. 30 del 1966 della Corte, la quale, pur pronunciando l'illegittimità parziale della detta legge, ha escluso dalla pronunzia l'art. 1 suddetto, dovrebbe desumersi che si é riconosciuto al legislatore il potere di dettare una disciplina unitaria dei rapporti in esame.

Quanto alla censura concernente la pretesa violazione della libertà di iniziativa economica, anche sotto il profilo della mancata rispondenza della legge ad interessi sociali, l'Avvocatura rileva che la nuova disciplina non muterebbe la struttura giuridica dell'istituto enfiteutico, che già prevedeva il diritto di affrancazione, limitandosi a diminuire l'onere economico dell'enfiteuta in considerazione del suo preponderante apporto di lavoro e di investimento di capitali, ed opererebbe con ciò una valutazione dei fini sociali perseguiti di natura essenzialmente politica ed ovviamente incensurabile in questa sede.

In relazione poi all'assunta violazione dell'art. 42 Cost. l'Avvocatura rileva che la legge, mediante la riduzione della misura dei canoni e dei capitali di affranco, tenderebbe alla attuazione di una maggiore giustizia a favore dell'enfiteuta, effettivamente presente sulla terra, a differenza del concedente, ed in conformità quindi coi principi della funzione della proprietà di cui alla invocata norma costituzionale, nonché della instaurazione di più equi rapporti sociali, del razionale sfruttamento del suolo e dell'aiuto alla piccola e media proprietà di cui all'art. 44 Cost., anche qui attraverso una valutazione comunque riservata all'ambito della discrezionalità del legislatore. D'altra parte l'enfiteuta sarebbe titolare di un diritto reale sul fondo mentre il concedente godrebbe di un diritto di proprietà molto limitato, situazione questa che già si rifletteva sulla disciplina dell'affrancazione dettata dal codice civile con indubbio favore di questa rispetto alla devoluzione al concedente. La nuova disciplina, in altri termini, non inciderebbe sostanzialmente sul diritto di godimento del concedente dato che nel rapporto enfiteutico é insita la facoltà di affrancazione. Accanto a tali rilievi, l'Avvocatura precisa che, comunque, nella specie, tratterebbesi non già di espropriazione, bensì di regolamentazione di un rapporto sinallagmatico, ed in proposito richiama la sentenza n. 46 del 1959 della Corte costituzionale con la quale si é affermato che la riduzione dei canoni livellari veneti disposta con legge 15 febbraio 1958, n. 74, non costituiva privazione senza corrispettivo dei diritti di una categoria di cittadini a favore di un'altra ma rappresentava solo riduzione ad equità della misura dei canoni. Inoltre l'Avvocatura obbietta che, in ogni caso, il prezzo di affrancazione rappresenterebbe il corrispettivo di una prestazione periodica, e non già del fondo concesso in enfiteusi, onde sarebbero arbitrari i riferimenti al valore di quest'ultimo per inferire la sussistenza di un'espropriazione senza equo indennizzo.

Passando a ribattere le censure mosse alla procedura di affrancazione prevista dalla legge impugnata, sostiene che (anche se dovesse aderirsi alla tesi secondo cui, perché si verifichi l'affrancazione, occorre il consenso del concedente o, in difetto, una sentenza di natura costitutiva, e non invece all'opinione che ravvisa nel diritto di affrancazione dell'enfiteuta un diritto potestativo sostanziale, al cui esercizio male si adatterebbero le forme della giurisdizione contenziosa) tratterebbesi nella specie pur sempre di un procedimento sommario che non si porrebbe in contrasto con i principi dell'art. 24 Cost. Invero, dopo il provvedimento pretorile, può instaurarsi un regolare procedimento innanzi alla sezione speciale del tribunale, che garantirebbe lo svolgersi di un diritto di difesa nei modi ordinari. In proposito l'Avvocatura pone in particolare rilievo una presunta analogia tra l'efficacia attribuita dalla legge all'ordinanza pretorile di affrancazione e l'esecutività del decreto penale di condanna non opposto, che tale diviene non perché l'ordinamento dia valore ad una pronuncia giurisdizionale emessa senza le dovute garanzie di difesa, ma perché la parte, non opponendosi alla condanna, dimostra di non aver motivi da far valere contro il provvedimento, così come avrebbe appunto chiarito la sentenza n. 170 del 1963 della Corte costituzionale che ha escluso il contrasto fra il procedimento per decreto e l'art. 24 Cost. D'altra parte, soggiunge l'Avvocatura, se l'ordinanza pretorile di affrancazione va trascritta, altrettanto deve dirsi però per la eventuale sentenza difforme della sezione del tribunale che si pronunci sul diritto all'affrancazione, per cui non sarebbe ragionevole il timore che l'ordinanza possa attuare un fatto compiuto irreversibile.

Nel contestare poi le censure sollevate contro l'art. 8 della legge l'Avvocatura precisa che l'abrogazione ivi prevista limiterebbe solo parzialmente i diritti del concedente, investendo solo un aspetto marginale del diritto del proprietario alla devoluzione che, nella sua essenza, resterebbe pur sempre garantito, salvo il rispetto della esigenza di eliminare la prevalenza della domanda di devoluzione su quella di affrancazione, avvertita dal legislatore a seguito di un apprezzamento discrezionale, incensurabile in questa sede.

Infondata sarebbe infine la censura sollevata in relazione all'art. 111 Cost., giacché tale precetto, col termine di sentenza, si riferisce a tutti i provvedimenti a contenuto decisorio contro i quali pertanto, anche se aventi forma di ordinanza, é sempre consentito il ricorso in Cassazione.

Si sono costituiti anche alcuni enfiteuti e precisamente Ciprì Stefano e altri, rappresentati e difesi dall'avv. Achille Prinzivalli, nel giudizio promosso con ordinanza del pretore di Palermo del 3 febbraio 1967; De Mezza Angelo e Borselleca Salvatore, rappresentati e difesi dall'avv. Antonio Putzolu, nel giudizio promosso con ordinanza del pretore di Vitulano del 9 febbraio 1967; Ciancone Amedeo, rappresentato e difeso dall'avv. Mario Diana, nel giudizio promosso con ordinanza del pretore di Anagni del 6 marzo 1967; Masella Nello, rappresentato e difeso dall'avv. Corrado Noulian, nel giudizio promosso con ordinanza del pretore di Velletri del 5 aprile 1967; Mastrantonio Vincenzo e altri, rappresentati e difesi dall'avv. Mario Diana, non ché Pomente Maria, rappresentata e difesa dall'avv. Alessandro De Feo, nel giudizio promosso con ordinanza del pretore di Frosinone del 6 aprile 1967; Piori Biagio, rappresentato e difeso dall'avv. Mario Diana, nel giudizio promosso con ordinanza del pretore di Alatri del 6 maggio 1967; Non Pietro ed altri, rappresentati e difesi dall'avv. Mario Diana, nel giudizio promosso con ordinanza del pretore di Paliano del 1 giugno 1967.

Le rispettive difese hanno ampiamente svolto le ragioni che militerebbero a favore della conservazione della disciplina dettata con la legge impugnata, sviluppando argomentazioni analoghe a quelle testé accennate.

In particolare per escludere che la legge impugnata disponga un livellamento irrazionale di situazioni diverse, si é osservato anzitutto che le differenze fra i vari rapporti non sarebbero tali da richiedere una disciplina differenziata e che comunque le diversità stesse troverebbero concreta rispondenza nella determinazione del reddito dominicale di ciascun fondo, assunto dalla legge come base per la determinazione del prezzo di affrancazione.

La parificazione disposta dalla legge non potrebbe ritenersi lesiva del principio di eguaglianza neppure per il fatto che non si sarebbe tenuto conto delle aree divenute fabbricabili perché, anche a norma della precedente disciplina, tali incrementi di valore non sarebbero egualmente venuti in considerazione ai fini dell'affrancazione. Neppure varrebbe ad integrare l'asserita violazione dell'art. 3 della Costituzione l'omessa considerazione delle particolari clausole contrattuali dei vari rapporti che, ove realmente portassero ad una diversa caratterizzazione del contratto, condurrebbero alla esclusione dell'applicabilità della legge da parte del giudice. Inoltre dovrebbe anche escludersi in particolare la violazione del principio di eguaglianza per effetto degli artt. 8 e 9 impugnati, perché la legge non avrebbe fatto altro che porre un limite temporale all'esercizio della devoluzione, la quale presenterebbe caratteristiche analoghe ad una risoluzione per inadempimento.

Inoltre si é affermato che il diritto di proprietà é tutelato dalla Costituzione con espresso riferimento alla funzione sociale dei beni, in vista cioè dell'uso che il singolo ne fa ai fini del conseguimento di interessi socialmente rilevanti, per cui non meriterebbe tutela il concedente, che ha ceduto il proprio bene ad altri, disinteressandosene in modo da lasciare agevolmente considerare né valido né operante il suo diritto di proprietà. Il che renderebbe del pari manifesta l'inidoneità dell'istituto stesso dell'enfiteusi a soddisfare le attuali esigenze sociali di ordine generale e quelle specifiche di incentivazione della produzione agricola, e fornirebbe ampia base giustificatrice alla legge in esame che in sostanza, annullando le sperequazioni sopra accennate, provvederebbe all'attuazione dei precetti costituzionali di cui agli artt. 41 e 42, secondo e terzo comma, eliminando ostacoli di ordine economico e sociale alla partecipazione dei lavoratori alla vita economica del Paese.

Siccome poi l'affrancazione dovrebbe qualificarsi come un particolare modo di acquisto della proprietà, le norme impugnate andrebbero valutate alla stregua dell'art. 42, secondo comma, della Costituzione, e si resterebbe fuori del campo di applicazione dell'invocato terzo comma dello stesso articolo. Ciò, senza dire che, in ogni caso, non potrebbe ravvisarsi nella descritta determinazione del prezzo di affranco una sostanziale espropriazione perché, così facendo, si finirebbe con l'ammettere che é espropriazione qualunque fissazione di prezzo di imperio.

Per quanto riguarda la censura mossa alla procedura di affrancazione, si é osservato anzitutto che il pretore non svolgerebbe un'azione meramente passiva che debba necessariamente giungere all'accoglimento della richiesta ma, attraverso l'audizione del concedente e la valutazione degli elementi probatori, si formerebbe un convincimento circa il diritto dell'affrancazione e l'entità del relativo prezzo. In ogni caso lo spostamento dell'esercizio di difesa alla seconda fase non conculcherebbe il diritto stesso, regolandone solo le modalità di espletamento entro i limiti che ne garantirebbero lo scopo e la funzione essenziale.

In particolare poi la censura si dimostrerebbe infondata dovendosi escludere di massima l'ipotesi della alienabilità del fondo in pendenza del termine per adire la sezione del tribunale, e dovendosi escludere comunque la natura giurisdizionale del procedimento pretorile, che dovrebbe piuttosto ritenersi di carattere amministrativo. Dal che, secondo alcuni difensori, deriverebbe altresì l'irricevibilità della questione, che potrebbe essere sollevata solo nel corso di un procedimento giurisdizionale.

Anche le particolari forme probatorie previste dalla legge non violerebbero il principio di difesa, rientrando certamente nelle facoltà del legislatore l'adeguamento dei mezzi di prova ai diritti che si fanno valere ed ai relativi procedimenti. Comunque, anche a voler ammettere l'inutilità della pronuncia della sezione del tribunale, per avvenuta alienazione del fondo nel frattempo, ciò non significherebbe vanificazione del diritto di difesa, soccorrendo il risarcimento del danno. L'ipotesi sarebbe però da escludere, giacché la stessa legge prevede la trascrizione anche della eventuale contestazione, e quindi la inefficacia delle alienazioni.

All'udienza del 7 novembre 1967, i giudizi promossi con le prime trentuno ordinanze sopra indicate, regolarmente notificate, comunicate e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale come in epigrafe, sono stati congiuntamente discussi e le difese delle parti costituite hanno svolto ed illustrato le tesi già prospettate.

Il 12 dicembre successivo la Corte ha emesso un'ordinanza con la quale, riuniti i giudizi di legittimità costituzionale della legge 22 luglio 1966, n. 607, ha richiesto al Ministero dell'agricoltura e foreste di fornire dati concernenti la situazione dei rapporti di cui agli artt. 1 e 13, lett. a, b, c, della legge stessa, nonché elementi di fatto riguardanti il contenuto economico, in relazione ai singoli tipi negoziali, della nuova disciplina dei canoni e delle affrancazioni. Il Ministero ha elaborato una relazione al riguardo, depositata in cancelleria il 12 aprile 1968.

Nelle more del giudizio é pervenuto un altro gruppo di ordinanze di rinvio che, in tutto o in parte, ripropongono sostanzialmente le questioni già dianzi accennate concernenti le citate norme della legge n. 607 del 1966, profilando peraltro anche qualche diverso aspetto di illegittimità.

Si é prospettata la violazione dell'art. 25 Cost., che si concreterebbe per effetto della particolare procedura di affrancazione, la quale in sostanza opererebbe un rinvio ad un giudice speciale, in contrasto con la garanzia del giudice naturale precostituito per legge; si é lamentato un particolare profilo del vizio di eccesso di potere legislativo che dovrebbe ravvisarsi nella circostanza che il legislatore avrebbe perseguito un fine oblatorio della proprietà conclamando invece di voler regolamentare l'istituto dell'enfiteusi ed usando quindi il suo potere normativo in materia, per attuare il fine diverso della espropriazione, "riservando ad altra disciplina"; si é prospettata la violazione del principio di eguaglianza in vista della discriminazione che, per effetto delle norme impugnate, verrebbe a crearsi fra i concedenti e coloro che non avendo concesso in enfiteusi i loro beni, manterrebbero integra la loro libertà contrattuale; si é ravvisata nell'abolizione dell'istituto della revisione dei canoni, disposta dall'art. 18 della legge, una causa ulteriore di iniquità a danno di una delle parti contraenti, in quanto in difetto di adeguamento al costante divenire economico, si assisterebbe nel caso di svalutazione monetaria, ad uno squilibrio a favore degli enfiteuti, e nel caso, improbabile ma non impossibile, di rivalutazione, ad uno squilibrio a favore dei concedenti.

Anche le ordinanze predette, regolarmente notificate e comunicate, sono state pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica come indicato in epigrafe.

Fra i concedenti si é costituita nel procedimento promosso con ordinanza del pretore di Torre del Greco in data 22 maggio 1968 la Mensa arcivescovile di Napoli, rappresentata e difesa dall'avv. Elio de Martino, che ha insistito nel sostenere l'illegittimità della legge in esame per motivi coincidenti con parte di quelli sopra esposti, non senza indicare particolari motivi di illegittimità non compresi nell'ordinanza di rinvio e consistenti nel preteso contrasto della legge con l'art. 7 della Costituzione, per l'incidenza che avrebbe la nuova regolamentazione sulla disciplina del godimento dei beni ecclesiastici prevista dal Concordato, e con l'art. 81 della Costituzione, per le nuove spese senza indicazione di copertura che si renderebbero necessarie per corrispondere la congrua agli ecclesiastici che vedrebbero decurtare le loro entrate per effetto della legge in esame. Nel procedimento promosso con ordinanza della Corte di appello di Catania del 22 luglio 1968, si sono costituiti Impellizzeri Lucia ed altri, rappresentati e difesi dagli avvocati Edoardo di Giovanni e Alfredo Marziano che si sono richiamati ai motivi di illegittimità fatti valere contro gli artt. 1, 15 e 18 della legge nell'ordinanza della Corte di appello e che riproducono in parte quelle che in proposito si é già avuto modo di illustrare.

Fra gli enfiteuti si sono costituiti, nel procedimento ora citato, proveniente dalla pretura di Torre del Greco Garzilli Giuseppe ed altri, rappresentati e difesi dall'avv. Guido Trapani; nei procedimenti promossi con ordinanze del pretore di Marano di Napoli del 15 luglio 1967 e di Terracina del 2 agosto 1967 l'Opera nazionale combattenti, rappresentata e difesa, in entrambi, dall'avv. prof. Rosario Mazzone; nel procedimento promosso con ordinanza del tribunale di Agrigento del 22 luglio 1967 Casa Giuseppe ed altri, rappresentati e difesi dall'avv. Alessandro De Feo.

Nel sostenere l'infondatezza delle sollevate questioni di legittimità, le suddette parti private ribadiscono, svolgendoli, taluni argomenti analoghi a quelli più sopra enunciati a difesa della nuova disciplina.

In particolare si é sviluppata l'argomentazione secondo cui il procedimento avanti al pretore non avrebbe carattere giurisdizionale, in difetto di provvedimenti decisori in tal senso da parte del giudice. Si é inoltre negato il contrasto con la garanzia del giudice naturale affermandosi che per tale deve intendersi anche quello che, per una determinata categoria di rapporti, può essere indicato da una legge speciale, purché con il carattere della generalità.

Nel ribattere le censure mosse contro il procedimento di affrancazione, si é anche osservato, che avanti al pretore si svolgerebbe invece un giudizio di cognizione sommaria, con l'osservanza dei termini essenziali del principio del contraddittorio, e che l'ordinanza pretorile, la quale dovrebbe essere motivata anche in relazione alle eccezioni e riserve delle parti, avrebbe il carattere di un provvedimento giurisdizionale provvisoriamente esecutivo, salvi quindi gli effetti della eventuale sentenza difforme della sezione specializzata del tribunale, in analogia con altri procedimenti a cognizione sommaria previsti dall'ordinamento e segnatamente col procedimento monitorio e quello per la dichiarazione di fallimento.

Si é anche affermata in particolare l'infondatezza della censura mossa all'art. 15 della legge nella parte in cui esclude dalla nuova disciplina i canoni nei casi in cui i relativi versamenti siano già stati effettuati osservando, che, mentre la censura si fonda sulla pretesa ingiustificata discriminazione a danno degli enfiteuti ossequienti all'obbligazione di pagare il canone ed a favore di quelli restii ad adempierla, in realtà la norma troverebbe ampia giustificazione nel riconoscimento del valore del processo di lotta sindacale che avrebbe condotto all'adozione della nuova disciplina e che avrebbe incluso, come mezzo di lotta, anche la sospensione dei pagamenti in attesa della riforma.

L'Avvocatura dello Stato, costituitasi nel giudizio promosso con ordinanza del pretore di Isernia del 14 luglio 1967, insiste nell'evidenziare il pubblico interesse alla trasformazione delle strutture dell'istituto enfiteutico, in corrispondenza della evoluzione sociale e delle esigenze della produzione agricola, e ribadisce le altre tesi già svolte in precedenza.

Tempestivamente sono state depositate memorie illustrative, per i concedenti, dagli avvocati Riccardo Leone, Alfredo Marziano, Salvatore Orlando Cascio e Vincenzo Panuccio, Giuseppe Abbamonte e Giuseppe Todini, Sebastiano Mastrobuono, difensore della Aragona Pignatelli Anna Maria, in sostituzione dell'avv. Orgera (deceduto), Luigi Cariota Ferrara, Alberto Melito. L'avv. Cariota Ferrara ha depositato anche memoria difensiva per Scio Antonio ed altri contro Schifano Filippo ed altri, non risultando peraltro a suo tempo costituito nel relativo giudizio. Nel complesso i suddetti difensori hanno ulteriormente svolto le tesi già precedentemente illustrate ribadendo agli esposti argomenti.

Inoltre, sono stati formulati rilievi alla relazione del Ministero dell'agricoltura, il cui contenuto é stato da più parti ritenuto lacunoso, generico, ed impreciso, specie per quanto concerne la rispondenza dei dati esposti alla effettiva situazione dei rapporti esaminati, con particolare riguardo alle enfiteusi urbane.

Tuttavia, anche in base alla relazione ministeriale, sarebbe da ritenere dimostrata la violazione del principio di eguaglianza, per la diversità del contenuto economico e della tipologia degli istituti considerati, e l'irrisorietà dei canoni e dei capitali di affrancazione di cui la relazione ministeriale darebbe sostanzialmente la conferma, e che raggiungerebbe comunque gli aspetti più clamorosi, anche se, si afferma, non dovutamente evidenziati nella relazione stessa, nel caso delle enfiteusi urbane. E ciò anche a prescindere dalla inapplicabilità della legge a tale ultimo tipo di contratto, su cui si torna ad insistere.

Allegate a diverse memorie figurano anche documentazioni tendenti a corroborare ulteriormente descritti assunti.

Per gli enfiteuti costituiti sono state ritualmente presentate memorie dagli avvocati Rosario Mazzone, Antonio Putzolu, Alessandro De Feo e Achille Prinzivalli. In sostanza, nel rifarsi, ampliandole, alle tesi già illustrate per escludere la fondatezza delle questioni sollevate, si rileva tra l'altro che dall'esame dei dati esposti nella relazione risulterebbe dimostrata la riconducibilità al tipo del contratto enfiteutico di tutti i rapporti menzionati nella legge in esame la cui applicabilità a quei tipi di contratti, che presentassero elementi di differenziazione troppo incisivi potrebbe essere esclusa dal giudice di merito.

I dati esposti inoltre porrebbero giustamente in evidenza le sperequazioni verificatesi a danno degli enfiteuti, specie in relazione agli apporti da questi esclusivamente forniti alla redditività dei fondi, e che appunto la legge impugnata mirerebbe fra l'altro ad eliminare, anche in vista dell'evoluzione storica dell'istituto, destinato all'estinzione, nonostante il tentativo di rivalutazione attuato dal Codice civile del 1942.

Anche l'Avvocatura generale dello Stato ha depositato una memoria con cui afferma, tra l'altro, che mentre dalla relazione del Ministero risulterebbe ridimensionato il presunto squilibrio che deriverebbe dalla applicazione della nuova legge, rimarrebbe altresì confermata sia la remota origine di gran parte dei rapporti in questione, probabilmente di natura feudale, per cui la reductio ad unitatem operata dalla legge obbedirebbe a fondamentali esigenze di chiarezza ed uniformità, sia comunque la progressiva desuetudine dell'istituto.

 

Considerato in diritto

 

  1. - Con l'ordinanza 12 dicembre 1967 sono stati riuniti i giudizi, allora pendenti davanti a questa Corte e riguardanti questioni di legittimità costituzionale della legge 22 luglio 1966, n. 607.

Nelle more della procedura, conseguente all'ordinanza, hanno fatto seguito altri giudizi, elencati in epigrafe, e tutti concernenti la stessa legge e le stesse questioni od altre connesse.

Va ora disposta, per dar luogo ad unica decisione, la riunione dei giudizi sopravvenuti a quelli precedenti.

  1. - Le questioni sottoposte all'esame della Corte concernono motivi, in parte comuni, in parte proposti soltanto in alcune ordinanze: nonché motivi, alcuni relativi alla dichiarazione di illegittimità della intera legge ed altri limitati a parte delle norme che la compongono.

La Corte procede, nell'ordine logico, anzitutto all'esame delle questioni che riguardano globalmente l'intera legge e poi all'esame delle questioni che la riguardano parzialmente.

  1. - Con il primo ordine di motivi, si pone in discussione la costituzionalità dell'intero sistema normativo di cui alla legge suindicata, sistema che sarebbe viziato da eccesso di potere legislativo per disarmonia col precedente sistema favorevole all'istituto dell'enfiteusi, per contrasto con i fini di utilità sociale della proprietà privata e perché avrebbe dato luogo ad una sostanziale espropriazione dei beni dei concedenti, dissimulata sotto l'apparenza pretestuosa di una aggiornata regolamentazione dell'istituto, risolventesi in una sua graduale soppressione.

La questione non é fondata.

Si può osservare, anzitutto, che, a smentire un deliberato intento di procedere all'eliminazione dell'istituto dell'enfiteusi, sta l'emanazione di altra legge coeva a quella in esame (legge 22 luglio 1966, n. 606) con la quale (art. 1) si dispone che ogni affitto a conduttori non coltivatori diretti debba cedere di fronte ad una concessione in enfiteusi del fondo a coltivatori diretti.

Comunque, l'ipotizzabilità stessa di un vizio di eccesso di potere legislativo, rilevabile dalla Corte, deve escludersi.

Si può ricordare che, secondo giurisprudenza (sentenze 24 febbraio 1964, n. 14 - 8 aprile 1965, n. 30 - 1 giugno 1966, n. 65 - 22 giugno 1966, n. 95) dal sindacato spettante alla Corte esula ogni possibilità di controllo sulle scelte politiche, in senso lato operate dal legislatore, sotto la sua responsabilità. Onde, il controllo della Corte deve intendersi circoscritto alla verifica se il provvedimento legislativo sia inficiato da carenza assoluta di motivi logici e coerenti o da contraddizione palese sui presupposti, in modo da incidere negativamente nel campo di altri diritti costituzionalmente garantiti (sul punto sono particolarmente da tenere presenti le citate sentenze n. 14 del 1964 e n. 65 del 1966).

Con riferimento alla specifica situazione in esame, attiene alle scelte politiche, insindacabili in questa sede, il criterio che ha orientato il legislatore verso un riassetto dei rapporti enfiteutici agrari. Questo criterio é palese: correggere il vetusto apparato dell'istituto, conformando il nuovo assetto alla tendenza, di incentivare lo sfruttamento della terra, riconducendo ad equa socialità i rapporti che ineriscono alla proprietà terriera: nella specie, i rapporti tra chi si limita a concedere la terra perché sia lavorata da altri e rimane, poi, assenteista, e chi vi appresta invece diuturne forze di lavoro. (L'ipotesi di fatto che enfiteuti o coloni eventualmente non siano personalmente coltivatori diretti, é ipotesi solo marginale ed occasionale, che lascia intatta la regola generale che non distingue l'un caso dall'altro).

Accertare, sul terreno storico - politico, la sopraggiunta esigenza di un ridimensionamento dell'istituto é e deve restare prerogativa del Parlamento, esente da controlli al riguardo: salvo, come si é detto, il controllo sulla carenza assoluta di motivi, che qui va ovviamente esclusa, ed il controllo sulla costituzionalità di alcune norme particolari, assunte come mezzo al fine: controllo, quest'ultimo, che esula dal profilo qui considerato.

  1. - Altra questione, che riguarda l'incostituzionalità della legge nel suo complesso, viene proposta, nel senso che il sistema adottato, pel favore mostrato verso la categoria degli enfiteuti, vulnererebbe i diritti inviolabili dell'uomo garantiti, ai fini di solidarietà economico-sociale, dall'art. 2 della Costituzione.

Questa Corte ha già ritenuto (sentenze 19 giugno 1956, n. 11, e 22 marzo 1962, n. 29) che l'art. 2 enuncia, solo in via generale, la tutelabilità di quei diritti di base, che formano il patrimonio irretrattabile della persona umana, mentre é nelle norme successive che quei diritti sono poi, singolarmente presi in considerazione e, come tali, in vario modo e misura, garantiti, tutelati e tutelabili.

Dato il profilo sotto cui é proposta la questione, rapportandola sommariamente, nell'ambito dell'art. 2, senza collegamento, immediato e diretto, con una denuncia di specifiche violazioni di diritti umani, la questione stessa va disattesa.

  1. - Tra i motivi, frequentemente ripetuti nelle ordinanze, v'é quello che la legge in esame, dando luogo, mediante gli artt. 1 e 13, ad uniformità di normativa, anche per rapporti differenziati dai rapporti enfiteutici tipici, contrasterebbe col fondamentale principio di cui all'art. 3 della Costituzione.

Nel novero dei rapporti, assimilati nel trattamento, e sempre sul presupposto, comune a tutti gli istituti, della loro natura reale, figurano le prestazioni fondiarie perpetue, i rapporti a miglioria in uso nelle province del Lazio e in altre parti del territorio nazionale, i contratti agrari atipici, nella loro multiforme varietà: ai quali rapporti, elencati testualmente negli artt. 1 e 13 si assume che dovrebbero aggiungersi, ritenendoli implicitamente regolati dalla legge, i rapporti aventi per oggetto enfiteusi urbane ed enfiteusi - ad aedificandum - mentre ogni loro assimilabilità nelle conseguenze, alle enfiteusi rustiche sarebbe, per diversità di contenuto e di caratteristiche, illegittima.

Per quanto concerne le enfiteusi urbane e quelle - ad aedificandum - considerate le prime come aventi generalmente per oggetto terreni gia coperti da edifici da conservare e migliorare e le seconde, come aventi per oggetto terreni concessi in enfiteusi per essere migliorati mediante la costruzione di edifici, la Corte ritiene che il sistema della legge, desunto dalla sua coordinazione, comporti la esclusione di esse dalla previsione legislativa.

Là dove la legge (art. 1) usa i termini di enfiteusi e di canoni enfiteutici parrebbe riferirsi comprensivamente a tutti i tipi di enfiteusi, nessuno escluso.

Ma, un esame di dettaglio fa ritenere che l'oggetto della legge riguarda soltanto le enfiteusi di fondi rustici a fini di miglioramento agrario, cioè quelle che prevalgono di gran lunga, per tradizione e diffusione, e che qui sono state considerate nel quadro generale di attuazione di riforme agrarie.

Il calcolo prescritto per ottenere una corrispondenza tra canoni in danaro e canoni in derrate (art. 1); la ricorribilità contro l'ordinanza di affranco alla Sezione speciale del tribunale per i contratti agrari (art. 5); le agevolazioni agli affrancanti coltivatori diretti in relazione alle disposizioni sulla proprietà contadina (artt. 11 e 12); il riferimento della misura dei canoni e delle prestazioni all'annata agraria (art. 15): sono tutte disposizioni che, non accompagnate da altre relative a fondi non rustici, denotano l'ambito esclusivo della legge.

Vero che, nelle discussioni in sede parlamentare, é sembrata prevalere la tendenza a considerare onnicomprensiva la formula dell'art. 1.

Ma le tutt'altro che univoche opinioni soggettive in tale senso manifestate, non valgono a sovrapporsi al senso naturale e logico che risulta dal testo della legge, sistematicamente considerato; con la conseguenza che il giudizio della Corte va circoscritto, a tutti gli effetti normativi, generali e particolari, entro l'ambito segnato dall'oggetto della legge, delimitato, come ora si é detto.

Circa le prestazioni fondiarie perpetue (art. 1 della legge) alle quali sono proprio le regole sulla redimibilità delle rendite perpetue (artt. 1865 e 1869 del Codice civile) l'applicazione ad esse delle stesse regole dell'enfiteusi é concetto consolidato per antica tradizione, che va dalla legge 24 gennaio 1864, n. 1636 in poi (legge 11 giugno 1925, n. 998; regio decreto 7 febbraio 1926, n. 426; D.L.C.P.S. 4 dicembre 1946, n. 671). Soltanto la legge 1 luglio 1952, n. 701, non ha compreso le rendite fondiarie perpetue nella revisione dei canoni, ma dall'iter formativo della legge risulta che l'esclusione fu dovuta non al disconoscimento di un principio equiparativo, bensì a considerazioni di mera opportunità contingente.

Per quanto concerne i rapporti a miglioria in uso nelle province del Lazio, va tenuto presente che l'art. 13, lett. a, della legge in esame, nell'annoverarli, non si limita ad un richiamo generico, ma testualmente li identifica e, nel contempo, li circoscrive a quelli precisati negli artt. 1 e 2 della legge 25 febbraio 1963, n. 327: cioè a quei rapporti che, dichiarati perpetui, vi sono definiti (art. 1) come quelli nei quali il coltivatore (possessore ultratrentennale) abbia migliorato il fondo con impianto di colture arboree o arbustive, od abbia pagato le migliorie esistenti all'atto dell'ingresso nel fondo al proprietario concedente o al miglioratario nel luogo del quale subentri, secondo convenzione od uso locale (condizione, questa ultima, anche per il cumulo del periodo di durata, secondo l'art. 2). Solo al verificarsi di queste condizioni, da accertarsi in fatto dal giudice ordinario competente, é sottoposta l'applicabilità delle norme generali sull'enfiteusi e di quelle, speciali e successive, sull'affrancazione.

Questa Corte ha già sottoposto ad esame di costituzionalità i citati artt. 1 e 2 della legge del 1963, riconoscendo legittimi con sentenza 20 marzo 1966, n. 30 l'assimilazione, negli effetti, all'enfiteusi dei rapporti a miglioria laziali purché aventi i dati caratteristici precisati nell'articolo i ed il loro assoggettamento ad una stessa disciplina normativa.

Appunto da questa premessa, la Corte ha fatto derivare l'illegittimità dei seguenti artt. 4 e 5, riguardanti l'applicazione a detti rapporti di peculiari norme di procedura sulla determinazione dell'equo canone di affitto di fondi rustici, ritenute estranee alla materia (enfiteusi o rapporti assimilati) cui avrebbero dovuto essere applicati.

Con la stessa sentenza, la Corte, nel delineare l'ambito di assimilazione di istituti nei loro effetti, ha, poi, messo in evidenza che detti effetti vanno esclusi ove si tratti di rapporti di colonie parziarie con clausola migliorataria (art. 2164 del Cod. civile) nelle quali é prevalente il carattere associativo.

La Corte, nel determinare il contenuto del citato articolo 13, lett. a, per valutare se l'equiparazione si risolva in un inammissibile trattamento imposto in modo eguale per situazioni disuguali, non può che adeguarsi alla propria succitata sentenza posto che in contrario non é profilato alcun nuovo argomento decisivo. Valido argomento contrario non é quello, ultimamente prospettato, che ogni assimilazione dovrebbe escludersi pel fatto solo che i rapporti a miglioria in uso nelle province laziali sono caratterizzati generalmente dalla limitazione dei diritti-doveri del miglioratario al soprassuolo, a differenza dei rapporti enfiteutici. Questo particolare rilievo, da considerarsi soprattutto sotto il riflesso della estensione e misura dell'esercizio del diritto di affranco, non é tale da sovrapporsi a tutti gli altri criteri di accostamento tra i due rapporti: una volta ammesso che, anche per le colonie miglioratarie del tipo in esame, sussiste il diritto pieno all'affrancazione, riconosciuto testualmente per esse fin dalla legge 11 giugno 1925, n. 998, la conseguenzialità degli effetti di questa é inerente alla natura dell'atto e ne discende, senza più consentire distinzioni tra soprassuolo e sottosuolo.

Alla stessa conclusione deve coerentemente addivenirsi per quanto riguarda i rapporti a miglioria relativi a fondi rustici situati in altre parti del territorio nazionale ed analoghi, per contenuto e caratteristiche, a quelli delle province del Lazio (art. 13, lett. b, ed ultimo comma) salvo al giudice di merito verificare, caso per caso, la sussistenza di tutte le condizioni di analogia.

Infine, va escluso alcun motivo di incostituzionalità per quanto riguarda la estensione della normativa ai rapporti costituiti in base a contratti agrari atipici (art. 13, lett. c), Questa categoria, a contenuto variabile con la varietà di situazioni locali, é stata espressamente considerata dall'art. 13 della legge 15 settembre 1964, n. 756 sui contratti agrari, al fine di favorire la conversione ope legis di questi nella sfera dei contratti tipici, in dipendenza del premesso divieto di stipulare per l'avvenire contratti agrari di concessione di fondi rustici non appartenenti ad alcuno dei tipi di contratti conosciuti e nominati dalle leggi. L'art. 13, lett. c, condizionando l'equiparazione di trattamento all'accertamento che si tratti di contratti in cui siano prevalenti gli elementi del rapporto enfiteutico, si mantiene nel solco della suaccennata direzione normativa.

In conclusione, anche sul punto riguardante la situazione dei rapporti elencati alle lettere a, b, c dell'art. 13 deve ritenersi la non fondatezza della questione di legittimità sollevata con riferimento all'art. 3 della Costituzione.

  1. - Viene sollevata, come questione d'ordine generale, quella di legittimità costituzionale degli artt. 2 e seguenti, in quanto il sistema procedurale per addivenire all'affrancazione violerebbe, nella sua fase davanti al pretore, la garanzia del diritto di difesa (art. 24, secondo comma, Cost.).

Si assume che l'ordinanza del pretore che dispone l'affrancazione del fondo viene emessa senza che delle osservazioni, riserve ed eccezioni delle parti sia fatto un esame che vada al di là di una loro sommaria presa d'atto (art. 4, quarto comma), mentre l'esame di tutta la possibile materia del contendere, a cominciare dal diritto stesso all'affrancazione, viene condizionato al futuro ed eventuale ricorso da proporsi alla sezione speciale dei contratti agrari presso il tribunale competente (art. 5, quinto comma). Per cui si darebbe luogo all'anomala conseguenza che basta la notifica della predetta ordinanza a produrre l'estinzione dell'enfiteusi (art. 5, quarto comma) ed a costituire titolo per la sua trascrizione (art. 4, sesto comma).

La questione non é fondata.

É indubbio che l'attività del pretore, nella fase di cui ai succitati articoli, dia luogo ad un procedimento giurisdizionale. La procedura si apre con la presentazione di una "domanda giudiziale" (art. 2): si svolge attraverso "udienze" (artt. 3, 4) nella prima delle quali, disposta con decreto la "comparizione personale delle parti", il pretore ha l'obbligo di "cercarne la conciliazione ai sensi dell'art. 185 del Codice di procedura civile" tentando, cioè, quella composizione della lite che inerisce alla fase iniziale dei giudizi civili: e la procedura si conclude con un provvedimento designato col nome di ordinanza, che, anch'esso, é proprio del giudizio. Manca solo al provvedimento il carattere della definitività nel senso che, essendo assegnato ai controinteressati un termine per adire il tribunale, la definitività verrà a derivare o dall'acquiescenza o dalla sentenza con la quale il tribunale perverrà a "decidere definitivamente" la controversia (art. 1 sesto comma).

Ciò premesso sulla natura degli atti, va esclusa la supposta menomazione del diritto di difesa.

Da una parte, va considerato che l'affrancazione é subordinata alla produzione e deposito di tutti i numerosi atti probatori elencati nell'art. 2 e controllabili da tutte le parti e anche dai loro patroni, poiché, trattandosi di fase giudiziale, é regola che le parti siano rappresentate e assistite da procuratori e da difensori (art. 82 del Cod. proc. civ.) ai quali sono riconosciuti i diritti e gli onorari (art. 10 cpv.). La produzione di atti di notorietà é soltanto un surrogato di atti la cui mancanza dovrà essere ovviamente giustificata.

D'altra parte, é riservata al pretore cognizione ampia su tutti i presupposti della domanda, sia mediante l'estensione dell'intervento alla procedura di altri interessati, risultanti "da notizie e dalla documentazione", sia mediante i contatti diretti con le parti (e loro difensori) ai sensi dell'art. 185 del Codice di procedura civile, sia mediante l'ausilio di consulente tecnico (art. 4), sia mediante la determinazione del capitale d'affranco ed il controllo sul suo deposito preventivo (art. 4, secondo e terzo comma). Il provvedimento del pretore deve poi essere "motivato" e non può darsi motivazione senza che la situazione da regolare sia tenuta presente dal giudicante per lo meno nelle sue linee essenziali, scaturenti dagli elementi probatori acquisiti.

Vero che il citato art. 4 dispone che, nello stesso provvedimento, il pretore deve dare "sommariamente" atto delle osservazioni, delle riserve e delle eccezioni delle parti. Ma tutto ciò, se vale a conservare traccia scritta da servire per l'eventuale giudizio da svolgersi in seguito davanti al tribunale, non basta per far ritenere che il pretore debba rimanere del tutto passivo, quale semplice registratore di deduzioni difensive, senza delibarne la portata.

Trattasi, in conclusione, di un procedimento sommario, volto ad operare, in vista del risultato sociale che la legge ha di mira, ed anche in considerazione che il diritto all'affranco spetta all'enfiteuta come diritto primario di natura potestativa, l'immediata estinzione del diritto del concedente e l'affermazione del pieno diritto dell'ex enfiteuta sul fondo: salvo e riservate a tutte le parti il diritto a conseguire in fase successiva una più piena tutela giurisdizionale.

Si prospettano in contrario le conseguenze che potrebbero derivare dal fatto che la trascrizione dell'ordinanza del pretore (imposta dall'art. 4, ultimo comma) porrebbe a libito dell'affrancante il mezzo di disporre del bene prima della "sentenza definitiva sulla controversia". Ma la facoltà accordata al pretore di ordinare l'iscrizione di ipoteca giudiziale a favore del concedente per l'ammontare che riterrà opportuno (art. 4, quinto comma), e, ancor più, la pubblicazione mediante trascrizione degli atti inerenti al fondo, a cominciare dalla trascrizione della domanda di affranco (art. 2643, n. 7, del Cod. civ.) escludono la possibilità di conseguenze irreparabili in danno del proprietario.

  1. - Compiuto l'esame delle questioni di costituzionalità che riguardano la legge considerata nei suoi aspetti più generali, occorre procedere all'esame di particolari questioni che più da vicino investono, pur nel quadro generale del sistema, determinate norme.

La prima e più rilevante questione concerne l'art. 1 che, per la fissazione dei canoni, innova alle norme del Codice civile, prescrivendo (primo comma) che per essi debbasi far riferimento al reddito dominicale calcolato, a norma della legge 29 giugno 1939, n. 976, oltre la rivalutazione disposta con il decreto legislativo 12 maggio 1947, n. 356, precisandosi per di più (ultimo comma) che tale reddito va riferito alla qualifica catastale risultante al 30 giugno 1939. Seguono nello stesso articolo le disposizioni sul capitale d'affranco calcolato in una somma corrispondente a quindici volte il valore dei canoni come sopra determinato.

Si assume che la imposizione in via generale di un canone unico, diverso da quello pattizio, comprimerebbe l'autonomia contrattuale, contrastando con la libertà d'iniziativa economica privata (art. 41 Cost.) e, con l'abbassare notevolmente il livello dei valori, sovvertirebbe, a danno del concedente e della utilità sociale, l'equilibrio del rapporto e darebbe luogo ad un'affrancazione che di questa perde i caratteri per assumere quelli di una espropriazione, indennizzata in misura irrisoria, con violazione dell'art. 42 della Costituzione.

La Corte, procedendo anzitutto all'esame della prima parte dell'art. 1 (determinazione del canone) osserva che l'autonomia contrattuale (già subordinata dall'art. 1322 del Cod. civ. ai "limiti imposti dalla legge" e derogata dal seguente art. 1339 per quanto riguarda la sostituzione di diritto alle clausole pattizie ed ai prezzi di beni e servizi, di clausole imposte dalla legge) non riceve dalla Costituzione una tutela diretta. Essa la riceve bensì indirettamente da quelle norme della Carta fondamentale, che, come gli artt. 41 e 42 - riguardanti rispettivamente l'iniziativa economica e il diritto di proprietà - si riferiscono ai possibili oggetti di quella autonomia. Comunque, la giurisprudenza della Corte, in casi riguardanti riduzioni di canoni d'affitto dei fondi rustici, rimunerazione del lavoro colonico, fissazione di prezzi minimi di prodotti terrieri, diritti del mezzadro sul valore delle scorte vive da riconsegnare (sentenze 20 febbraio 1962, n. 7; 13 maggio 1964, n. 40; 8 aprile 1965, n. 30; 2 luglio 1967, n. 118), ha ritenuto che, in materia, l'autonomia contrattuale deve cedere di fronte a motivi d'ordine superiore, economico e sociale, considerati rilevanti dalla Costituzione.

Né vale obbiettare che i fini sociali rimangono, nel caso, incerti perché non tradotti in programmi definiti, ai sensi dell'art. 41, terzo comma, della Costituzione. A parte ogni rilievo circa l'invocabilità di quest'ultimo precetto fuori del campo dell'attività d'impresa, va ricordato ancora una volta che il disegno che il legislatore si é proposto con la legge in esame é sufficientemente motivato ed evidenziato nell'ambito dell'esercizio di insindacabili scelte politiche.

  1. - Premessa la legittimità di un intervento in materia del legislatore, va ora esaminato se altrettanto possa dirsi del sistema adottato al fine di determinare il canone.

Il riferimento al reddito dominicale, costituito, come é noto, dalla somma del reddito prodotto in modo specifico dalla terra secondo la sua fertilità (rendita fondiaria propriamente detta) con l'interesse dei capitali stabilmente investiti e incorporati nel suolo, costituisce un parametro di applicazione già adottato in casi analoghi. Va ricordata, particolarmente, la legge 15 febbraio 1958, n. 74 (art. 1) riguardante i canoni livellari veneti, ai quali canoni l'art. 13, quarto comma, della legge attuale estende le proprie norme, ad eccezione di quella dell'art. 1 già regolata dalla legge sui livelli nel senso che, anche agli effetti del prezzo di affrancazione, per i canoni costituiti prima del Codice del 1865 é fissata la misura massima nel triplo del reddito dominicale del fondo sul quale gravano, determinato secondo il decreto legge 4 aprile 1939, n. 589, convertito in legge 29 giugno 1939, n. 976.

Quest'ultimo sistema di riferimento e di calcolo é stato sottoposto al controllo di costituzionalità da parte di questa Corte, che, con sentenza 9 luglio 1959, n. 46, lo riconosceva legittimo in sé e nella congruità dell'ammontare, anche se in taluni casi questo ammontare sarebbe venuto a risultare notevolmente basso.

Vero che sussistono alcune differenze particolari tra le due leggi (quella sui livelli veneti e quella attuale) poiché la prima é limitata ai rapporti costituiti prima del Codice del 1865 e fissa al triplo del reddito dominicale il limite massimo di canoni, e in più non comprende la rivalutazione di cui al decreto 12 maggio 1947, n. 356, e non fa riferimento esclusivo alla qualifica catastale risultante al 30 giugno 1939.

Ma, agli effetti del punto in esame, la ragione allora adottata per decidere, conserva la sua validità.

  1. - Altra questione, che si innesta su questa premessa, é quella riguardante in concreto, in relazione alla particolarità dei rapporti regolati dalla legge, la misura del canone, quale deriva dal calcolo legalmente imposto, anche in considerazione dei riflessi diretti sull'affranco e sulla determinazione del capitale d'affranco. Le due prospettive, attenendo l'una come l'altra al diritto di proprietà, ai suoi limiti, alla possibilità di incidere su di esso e suoi rapporti che ne nascono, si collegano all'art. 42 della Costituzione. Più precisamente, risultandone colpite incisivamente certe posizioni giuridiche dei proprietari, senza che peraltro venga innovato il regime di appartenenza dei beni in sé considerato (infatti il regime della proprietà terriera viene, in sé conservato immutato), si collegano al terzo comma di tale articolo.

Si tratta perciò di un problema di proporzione quantitativa nella coordinazione di rispettivi interessi. E, al riguardo, la relazione su dati obbiettivi, demandata dalla Corte al Ministero dell'agricoltura, costituisce un apporto tecnico per la valutazione della materia di giudizio.

Ciò premesso, la Corte rileva che il punto di riferimento, fisso ed insuperabile, alla qualifica ed al reddito catastale del 1939 maggiorato ai sensi del decreto legislativo n. 356 del 1947 deve essere valutato, a tutti i fini sopra indicati, per saggiarne l'incidenza economica sullo svolgimento del rapporto tra le parti nel corso della sua durata e dal momento della sua eventuale cessazione.

La relazione del Ministero dell'agricoltura, offre alcuni dati concreti sufficientemente orientativi ed ausiliari.

In proposito, la valutazione dei dati forniti dal Ministero e composti da elementi indicativi specifici o mediamente prevalenti, consente una prima conclusione: che il divario tra canone in danaro pattizio e canone legale, é, in via generale, per quanto riguarda i rapporti di antica costituzione, di limitata entità, tale da non raggiungere, nella generalità dei casi, quel punto di rottura che renderebbe il canone puramente apparente e simbolico. Trattasi di canoni che, sin dall'origine lontana e nonostante i moderati ritocchi accordati legislativamente nel corso della loro esistenza, hanno conservato la portata di una misura esigua, in molti casi sopravvissuta quasi per forza di inerzia, tra l'indifferenza dei concedenti.

La considerazione di questo sostrato di fatto é solo un elemento, che integra necessariamente, ma senza esaurirla, la proposta questione di costituzionalità.

Vi sono altri elementi che, più intrinsecamente e più da vicino, riguardano la tipologia originaria dei rapporti di antica costituzione: particolarmente l'elemento della immutabilità del canone.

Il principio della revisione del canone, a seconda dell'aumentato o diminuito valore del fondo e notevolmente condizionato secondo l'art. 962, secondo comma, del codice civile, é stato introdotto soltanto con il Libro della proprietà, approvato con regio decreto 30 gennaio 1941, n. 15, entrato in vigore dal 28 ottobre 1941, trasfuso nel testo del codice civile approvato con regio decreto 16 marzo 1942, n. 262 e reso esecutivo dal 21 aprile 1942. E per le enfiteusi costituite anteriormente al 28 ottobre 1941, l'art. 114 delle disposizioni transitorie al Codice civile ha bensì consentito la presentazione della relativa domanda, ma solo a decorrere dal 28 ottobre 1944 ed in più per la prima revisione, con limitati effetti sulla nuova misura del canone.

Il diritto a chiedere la revisione del canone, riconosciuto al concedente o all'enfiteuta ha conferito al contratto un nuovo elemento di rilievo, rispetto al tipo tradizionale: ma, per quanto riguarda le vecchie enfiteusi, con operatività alquanto ridotta.

Da qui, un fondamento di ragione, nelle norme del primo e ultimo comma dell'art. 1 che, riferendo le valutazioni alla data del 30 giugno 1939 in rapporto alla qualifica catastale e ricavandone un reddito dominicale rivalutato per legge, a cui adeguare il canone, realizzano, in tal modo, una soluzione intermedia tra quella originaria e quella prevista dal codice del 1942. Un simile risultato, del resto, non rivela sproporzioni tali da fare considerare ridotto a misura irrisoria, rispetto a quello iniziale, il compenso alla proprietà sacrificata: in qualche caso perfino, come attesta la relazione ministeriale, maggiorandolo, rispetto al risultato ottenibile con la calcolazione di cui all'art. 971, ultimo comma, del Codice civile.

Lo stesso, conseguentemente, deve dirsi per quanto riguarda il capitale di affranco (quarto comma dell'art. 1) ricavato moltiplicando per quindici volte il valore dei canoni.

La Corte ritiene che la conclusione sia valida anche per i canoni e le altre prestazioni in natura, sempre nell'ambito dei rapporti di origine antica. L'art. 1 della legge in esame (secondo comma), sia per i versamenti in quantità fissa di derrate, sia per quelli in quota di derrate, li riduce, previa calcolazione dell'equivalente in danaro, al limite della stessa somma corrispondente al reddito dominicale di cui al primo comma.

Per quanto concerne la predetta calcolazione dell'equivalente in danaro, l'art. 1 ha, ai fini dell'affranco, in parte seguito il criterio adottato dall'art. 3 comma secondo della legge 1 luglio 1952, n. 701, aggiornando tuttavia la rilevazione dei prezzi: soltanto la successiva riduzione al limite suindicato costituisce una particolarità inerente al nuovo sistema.

Il divario che ne risulta, secondo dati indicativi allegati alla relazione del Ministero dell'agricoltura, é certo, almeno in molti casi, maggiore di quanto non sia il divario tra i canoni in danaro.

Ma, data la natura e le origini dei remoti rapporti in questione e i fattori ai quali si collega il mutare dei prezzi dei prodotti agricoli, questo divario é tale da correggere ma non vanificare la sostanza economica del rapporto. Il divisamento del legislatore di unificare, nella regolamentazione, forme diverse dello stesso istituito, trova, nel riferimento comune al reddito dominicale, un suo coerente punto d'incontro.

  1. - Gli argomenti che si sono finora prospettati, trovano, tuttavia, la loro giustificazione, solo se riferiti alle enfiteusi ed istituti equiparati, di antica costituzione: non per quelli di più recente formazione.

La data dell'entrata in vigore del Libro della proprietà (28 ottobre 1941) segna, a giudizio della Corte, una importante demarcazione. Da una parte, l'accadimento di imponenti fatti storici ed economici ha inciso in profondità e progressivamente sui valori dei beni talvolta anche per effetto di una modifica di destinazione e la svalutazione della monete ne é stata, ad un tempo, causa ed effetto, più o meno permanente. Dall'altra parte, i rapporti costituiti, in tempi, luoghi e situazioni diversi, dopo la data suindicata, hanno risentito della strutturazione, in parte nuova, che la legge civile ha loro assegnato. Particolarmente, l'assegnazione di un diritto alla revisione del canone "in relazione al valore attuale" (art. 962 del Cod. civ.) ha segnato il passaggio da una concezione statica del rapporto ad una concezione dinamica: ed i nuovi rapporti sono sorti - ab initio - e si sono svolti, sotto la garanzia della possibile operatività di quel diritto.

Il riferimento alla qualifica catastale del 1939 viene quindi ad assumere, per i rapporti ora in esame, un aspetto inadeguato, anacronistico, e tale da creare ingiuste sperequazioni, sia se considerato in relazione a quei beni che abbiano avuto - medio tempore - incrementi di valore, per cause obbiettive di trasformazione, anche indipendenti dagli apporti dei concessionari ed, eventualmente, degli stessi concedenti, sia, ed a maggior ragione, se considerato in relazione a rapporti aventi per oggetto terreni che già, al momento della concessione, si trovavano per qualità e quantità di colture ed in genere, per i loro pregi intrinseci ed estrinseci, in condizione di redditività ben diversa e maggiore di quella esistente nel lontano anno 1939.

Il sistema della legge di procedere, per il calcolo, a ritroso nel tempo, viene così a creare (e la relazione del Ministero dell'agricoltura contribuisce coi suoi dati di confronto ad evidenziare la situazione) quella dissociazione tra il momento dell'incidenza indennizzabile sul diritto colpito e il momento cui va riferito il calcolo del valore di quest'ultimo, che questa Corte, con sentenza n. 22 del 5 aprile 1965 riguardante la legge 18 aprile 1962, n. 167, e già prima con la sentenza 22 dicembre 1959, n. 67, ha dichiarato illegittima.

Nel caso in esame, la dissociazione é profonda ed incolmabile e conseguentemente ne resta viziato, limitatamente ai rapporti temporali in esame, il congegno della legge, sia per quanto riguarda la misura dei canoni sia, correlativamente, per quanto riguarda i capitali d'affranco, gli uni e gli altri resi suscettibili di scendere al di sotto del livello di un'equa valutazione, dell'art. 42, terzo comma, della Costituzione.

In questo senso, e dentro questi limiti, va dichiarata la illegittimità costituzionale dell'art. 1.

  1. - Nell'ordine delle norme, singolarmente sottoposte al controllo di costituzionalità, si presenta la norma dell'art. 8 e, correlativamente quella dell'art. 9, che concernono l'abrogazione del divieto, stabilito dall'art. 972, ultimo comma, del Codice civile, di ammettere l'affrancazione qualora intervenga una domanda giudiziale di devoluzione per deterioramento del fondo o non adempimento dell'obbligo di migliorarlo.

La Corte osserva anzitutto che la finalità abrogativa manifestata dalle norme in esame rientra nell'ambito dei poteri del legislatore, non sindacabili in questa sede per le ragioni di principio dianzi già indicate.

Non si tratta di una immotivata e immotivabile direttiva, carente in modo assoluto di razionalità: bensì si tratta di far entrare nell'alveo del principio della prevalenza dell'affrancazione sulla devoluzione (principio conclamato in termini accentuati anche nella relazione ministeriale al Codice) ogni ipotesi di fatto, senza alcuna eccezione. D'altra parte, l'eccezione di cui all'art. 972 del Codice civile non era dallo stesso articolo condotta in ogni caso a rigorosa conseguenzialità, dappoiché si era ritenuto sufficiente (art. 972, ultima parte dell'ultimo comma) l'intervento di una sentenza soltanto di primo grado che avesse ammesso, pur senza costituire giudicato, la affrancazione, per impedire la domanda di devoluzione.

Trattasi, pertanto, di una eccezione marginale alla regola primaria dell'affrancabilità, eccezione sovente (e la norma da ultimo ricordata lo conferma) sollevata come tardivo rimedio ad uno stato di inerzia precedente.

L'abrogazione operata con l'art. 8, non può dar luogo a rilievi di incostituzionalità.

  1. - Viene sollevata questione di costituzionalità dell'art. 15 della legge che, nel dare decorrenza retroattiva alla misura dei canoni e delle altre prestazioni dell'annata agraria 1962-1963, ha fatto salvi i casi in cui il relativo versamento sia stato già effettuato.

Si assume che con questa norma sia stata creata una disparità di conseguenze tra i partecipi del rapporto, dando luogo ad una situazione irreversibile, potenzialmente dannosa solo e proprio nei casi in cui gli obblighi di versamento dei canoni siano stati puntualmente già adempiuti.

La questione, che viene posta in relazione all'art. 3 della Costituzione, non é fondata.

Per quanto riguarda gli effetti retroattivi, l'art. 25, secondo comma, della Costituzione ne segna il divieto limitatamente alle norme punitive: conseguentemente, questa Corte ha già escluso l'esistenza di un principio generale di irretroattività delle leggi (sentenze 15 maggio 1957, n. 71, e 2 luglio 1957, n. 118).

Per quanto riguarda gli effetti dello ius superveniens sui rapporti anteatti, va considerato che l'art. 15 non dà luogo ad una disparità di trattamento da valutare secondo l'art. 3 della Costituzione. Ma si uniforma al principio, riconosciuto largamente in tema di successione di leggi, secondo cui la legge nuova non incide sui fatti esauriti, in tutto o in parte, sotto il vigore di quella precedente: ciò anche per favorire l'utilità sociale "della certezza dei rapporti preteriti" posta in evidenza nell'ora citata sentenza 2 luglio 1957, n. 118.

  1. - Va esaminata, da ultimo, la questione di costituzionalità relativa all'art. 18 della legge, che dispone l'abrogazione dell'art. 962 del Codice civile sulla revisione dei canoni relativi ad enfiteusi rustiche.

Si assume che, una volta pretermesso il motivo di questa norma, diretta a conservare attraverso la fluttuazione dei valori, un equilibrio tra ammontare dei canoni e valori del fondo, si darebbe luogo a conseguenze antieconomiche, socialmente dannose, tali da snaturare il rapporto e da incidere gravemente, in relazione all'art. 42, terzo comma, della Costituzione, sulla quantificazione dei diritti di proprietà.

La questione non é fondata.

La disposizione dell'art. 962 ha costituito una innovazione non solo e non tanto in relazione all'immediato precedente legislativo del Codice del 1865, quanto in relazione alla secolare caratterizzazione dell'istituto, data dalla inalterabilità del canone.

Con l'art. 962 si é ritenuto di apportare un correttivo (ne fa fede la relazione ministeriale) ad una situazione che sembrava conducente "a far cadere in desuetudine l'istituto": correttivo, tuttavia, poi non condiviso da autorevole corrente di giuristi ed economisti, i quali, al contrario, hanno ritenuto che proprio l'inalterabilità del canone costituiva il presidio per mantenere l'originalità dell'istituto, specie a vantaggio dei lavoratori della terra.

Ne consegue che l'abrogazione ora disposta dal legislatore con l'effetto del ritorno alla tradizione, appartiene ad una valutazione discrezionale dei motivi, che non può formare oggetto di sindacato da parte di questa Corte.

  1. - Poiché le enfiteusi urbane e quelle ad aedificandum sono, come si é già detto, da considerarsi escluse dall'ambito della legge in esame, l'abrogazione del diritto alla rivendibilità va qui considerata in funzione della materia, propria ed esclusiva, dell'enfiteusi sui fondi rustici.

Ogni altra questione che possa riguardare l'estensione ovvero la non estensione dell'ambito dell'abrogazione ad altre ipotesi al di fuori della normativa in esame, vengono ad incidere negativamente, escludendolo, sul riconoscimento di una loro rilevanza in questo giudizio.

  1. - Lo stesso art. 18 della legge contiene l'abrogazione degli art. da 142 a 149 delle disposizioni transitorie al Codice civile.

Per quanto riguarda la costituzionalità dell'abrogazione degli artt. 142, 144, 147 e 149 riguardanti rapporti costituiti sulla le leggi anteriori al Codice, ai fini della revisione, affrancazione e devoluzione (e che solamente qui interessano in derivazione delle ordinanze di rinvio) la questione stessa, prospettata di scorcio in alcune ordinanze e difese, viene ad inserirsi direttamente nel quadro dei motivi già esposti per le antiche enfiteusi con la conseguenza del riconoscimento della loro legittimità costituzionale.

  1. - In conclusione, la Corte perviene alla decisione di illegittimità costituzionale, concentrandola nel solo punto in cui l'art. 1 della legge in esame consente di estendere l'applicazione delle relative norme anche alle enfiteusi e rapporti analoghi conclusi successivamente al 28 ottobre 1941.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 della legge 22 luglio 1966, n. 607, contenente "norme in materia di enfiteusi e di prestazioni fondiarie perpetue", limitatamente alla parte in cui comprende nella normativa anche i rapporti, che formano oggetto della legge, conclusi successivamente alla data del 28 ottobre 1941.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 marzo 1969.

Aldo SANDULLI  -  Giuseppe BRANCA  -  Michele FRAGALI  -  Costantino MORTATI  -  Giuseppe CHIARELLI  -  Giuseppe VERZÌ  -  Giovanni BATTISTA BENEDETTI  -  Francesco PAOLO BONIFACIO  -  Luigi OGGIONI  -  Angelo DE MARCO  -  Ercole ROCCHETTI  -  Enzo CAPALOZZA  -  Vincenzo MICHELE TRIMARCHI  -  Nicola REALE 

 

Depositata in cancelleria il 21 marzo 1969.