Sentenza n. 24 del 1969
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SENTENZA N. 24

ANNO 1969

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Aldo SANDULLI, Presidente

Prof. Giuseppe BRANCA

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni BATTISTA BENEDETTI

Prof. Francesco PAOLO BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo MICHELE TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 49 del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, contenente norme in materia di fallimento, promosso con ordinanza emessa il 10 marzo 1967 dal pretore di Saronno nel procedimento penale a carico di Monticciolo Giuseppe, iscritta al n. 79 del Registro ordinanze 1967 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 132 del 27 maggio 1967.

Visto l'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udita nell'udienza pubblica del 15 gennaio 1969 la relazione del Giudice Vezio Crisafulli;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Giorgio Azzariti, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

Nel corso di un procedimento penale a carico di Monticciolo Giuseppe il pretore di Saronno, accogliendo una eccezione difensiva, ha sollevato con ordinanza emessa il 10 marzo 1967 questione di legittimità costituzionale nei confronti dell'art. 220 della legge 16 marzo 1942, n. 267 (inesattamente indicata sotto il n. 266) in relazione all'art. 49 della stessa legge, per contrasto con gli artt. 13 e 16 della Costituzione.

Sotto il profilo della non manifesta infondatezza il pretore rileva che l'obbligo imposto al fallito dalle norme impugnate di presentarsi al curatore ogni volta questi lo richieda restringe notevolmente la libertà del cittadino senza che ciò appaia giustificato da ragioni di pubblico interesse, in quanto la procedura fallimentare, pur essendo prevista a salvaguardia di interessi generali, ha natura privata, per la specifica tutela degli interessi individuali dei creditori.

L'ordinanza premette che la Corte costituzionale avrebbe già deciso nel senso della infondatezza una questione relativa alla limitazione della libertà personale derivante dallo stato fallimentare dell'imprenditore, sotto l'aspetto più particolare della libertà epistolare, ma aggiunge che fra le varie libertà garantite dalla Costituzione al cittadino esiste una gerarchia basata sulla loro importanza e che al vertice di questa gerarchia deve porsi la libertà personale.

Pertanto, ritenendo la questione non manifestamente infondata ed affermando che non risultava che la Corte avesse su di essa deciso, il pretore sospendeva il giudizio di merito e rinviava gli atti a questa Corte per la decisione sulla questione come innanzi prospettata.

É intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura di Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.

Nelle sue deduzioni l'Avvocatura fa presente che la Corte si é già pronunciata in favore della legittimità costituzionale degli artt. 49 e 220 della legge fallimentare con la sentenza 8 marzo 1962, n. 20.

Richiamandosi ai principi stabiliti in quella decisione, la Avvocatura rileva che "la presenza del fallito, o comunque la sua disponibilità immediata ad ogni invito del giudice delegato o del curatore costituisce una condizione indispensabile per l'espletamento degli atti del procedimento concorsuale"; che la norma di cui all'art. 49 della legge fallimentare non ha pertanto neppure indirettamente lo scopo di limitare un diritto di libertà, ma "ha una funzione meramente strumentale in relazione ai fini assegnati al procedimento concorsuale nei confronti del quale il fallito costituisce un mezzo necessario che, del resto, attraverso il controllo continuativo del giudice delegato e del tribunale, si realizza pienamente la garanzia che la limitazione ai movimenti del fallito sia contenuta nei termini segnati dalle esigenze della procedura.

Quanto ai nuovi argomenti contenuti nell'ordinanza di rimessione, é da respingere, secondo l'Avvocatura, l'introduzione di un principio di gerarchia rispetto al concetto della libertà, che non può sopportare divisioni o distinzioni di grado o di intensità, in quanto costituisce un bene primario inviolabile e insopprimibile, non suscettibile di scambio, né - trattandosi di un concetto qualitativo - di una gradazione o di una quantificazione nei suoi vari aspetti.

All'udienza l'Avvocatura ha insistito nelle deduzioni e conclusioni precedentemente formulate.

 

Considerato in diritto

 

L'ordinanza conclude denunciando l'art. 220 in relazione all'art. 49 del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, contenente norme in materia di fallimento, per contrasto con gli artt. 13 e 16 della Costituzione. La Corte osserva che l'art. 220 contiene una norma sanzionatoria che ha riferimento a diverse ipotesi, e non solamente alla violazione da parte del fallito degli obblighi derivanti dall'art. 49 di guisa che é contro quest'ultima disposizione che si rivolgono in realtà le censure dell'ordinanza. Le quali d'altronde, come si evince dalle argomentazioni addotte e come risulta altresì confermato dagli atti del processo principale rimasto sospeso, concernono esclusivamente l'obbligo del fallito di presentarsi personalmente, ogni qual volta ne sia richiesto, al giudice delegato, al curatore o al comitato dei creditori. Rimane perciò estranea al presente giudizio quella parte dello stesso art. 49 che impone al fallito l'obbligo di non "allontanarsi dalla sua residenza" senza autorizzazione del giudice delegato: norma, quest'ultima, che aveva in precedenza formato oggetto di analoga questione di legittimità costituzionale alla stregua degli artt. 13 e 16 della Costituzione, dichiarata da questa Corte non fondata con la sentenza 8 marzo 1962, n. 20

.

Le considerazioni svolte in detta sentenza sarebbero già sufficienti per escludere, a maggior ragione, che gli obblighi di presentazione del fallito, per loro natura puntuali e strettamente circoscritti nel tempo, rientrino tra le limitazioni della libertà personale o di quella di circolazione e soggiorno, vietate dagli artt. 13 e 16, fuori delle ipotesi, delle condizioni e delle forme rispettivamente previste.

Gli obblighi di cui é questione nel presente giudizio configurano una ipotesi di prestazioni personali che, a norma dell'art. 23 della Costituzione, possono dalla legge essere validamente imposte per soddisfare interessi considerati meritevoli di particolare tutela, e costituzionalmente rilevanti, come sono, nella specie, gli interessi di giustizia inerenti alla procedura fallimentare, della quale il fallito é il soggetto passivo ed alla base della quale si pone, comunque, un atto del giudice, qual é appunto la sentenza dichiarativa di fallimento. Ed é appena il caso di rilevare che, avendo la presentazione del fallito carattere strumentale rispetto alle esigenze della procedura in corso, é dalla legge stessa che si ricavano, anche se implicitamente, i limiti della discrezionalità degli organi del fallimento nel prescriverla di volta in volta quando sia necessaria, tanto é vero che, in caso di legittimo impedimento, il fallito può essere autorizzato dal giudice a farsi rappresentare da un mandatario speciale. Non é perciò violato il principio della riserva di legge posto a garanzia del cittadino dall'art. 23 della Costituzione secondo l'interpretazione costantemente affermatane dalla giurisprudenza di questa Corte.

Sotto il profilo ora accennato, l'obbligo di presentazione del fallito non ha natura diversa dal dovere, che grava su ogni cittadino, di prestare testimonianza in giudizio, o dagli obblighi che possono essere imposti nelle ipotesi di cui all'art. 652 del Codice penale (in ordine ai quali questa Corte, con sent. n. 49 del 9 luglio 1959, ebbe a dichiarare non fondata una questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento all'art. 13), o dall'obbligo di presentarsi all'autorità di pubblica sicurezza previsto dall'art. 15 del testo unico del 1931 (questo pure ritenuto, con sent. 24 aprile 1967, n. 52, non contrastante con l'art. 13), od anche, sopra un piano diverso, da quelli autorizzati dall'art. 2 della legge 30 agosto 1868, n. 4613, giudicati a loro volta non incompatibili, tra l'altro, con gli artt. 13 e 16 della Costituzione (sent. 15 marzo 1960, n. 12).

Ovviamente l'adempimento di obblighi siffatti implica come conseguenza la limitazione di attività che il soggetto cui sono imposti potrebbe altrimenti svolgere liberamente e a suo pieno arbitrio, poiché sempre e per definizione l'imposizione di prestazioni personali comporta - in fatto - conseguenze del genere. Ma, come si é sopra rilevato, nel caso in esame tali limitazioni, mentre da un lato sono funzionalizzate ad una procedura giudiziaria e derivano ope legis dalla sentenza dichiarativa di fallimento, d'altro lato non incidono direttamente nell'ambito delle fattispecie tipiche garantite dagli artt. 13 e 16 della Costituzione.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata, in riferimento agli artt. 13 e 16 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 49 del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, contenente norme in materia di fallimento, sollevata con ordinanza 10 marzo 1967 del pretore di Saronno.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 febbraio 1969.  

Aldo SANDULLI  -  Giuseppe BRANCA  -  Michele FRAGALI  -  Costantino MORTATI  -  Giuseppe CHIARELLI  -  Giuseppe VERZÌ  -  Giovanni BATTISTA BENEDETTI  -  Francesco PAOLO BONIFACIO  -  Luigi OGGIONI  -  Angelo DE MARCO  -  Ercole ROCCHETTI  -  Enzo CAPALOZZA  -  Vincenzo MICHELE TRIMARCHI  -  Vezio CRISAFULLI  -  Nicola REALE 

 

Depositata in cancelleria il 20 febbraio 1969.