Sentenza n. 116 del 1968
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SENTENZA N. 116

ANNO 1968

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Aldo SANDULLI, Presidente

Prof. Giuseppe BRANCA

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE, 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 143, comma secondo, lett. a e b, e ultimo comma, del D.P.R. 29 gennaio 1958, n. 645 (testo unico delle leggi sulle imposte dirette), promossi con ordinanze emesse il 7 dicembre 1965 ed il 30 novembre 1967 dalla Commissione distrettuale delle imposte di Urbino sui ricorsi di Salvodelli Pedrocchi Gaetano e di Bardovagni Zeno contro l'Ufficio distrettuale delle imposte di Urbino, iscritte rispettivamente ai nn. 81 del Registro ordinanze 1967 e 30 del Registro ordinanze 1968 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 132 del 27 maggio 1967 e n. 102 del 20 aprile 1968.

Visti gli atti d'intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri e di costituzione di Bardovagni Zeno e dell'Amministrazione finanziaria dello Stato;

udita nell'udienza pubblica del 9 ottobre 1968 la relazione del Giudice Luigi Oggioni;

uditi l'avv. Franco Ligi, per il Bardovagni, ed il sostituto avvocato generale dello Stato Umberto Coronas, per il Presidente del Consiglio dei Ministri e per l'Amministrazione finanziaria.

 

Ritenuto in fatto

 

Con ordinanza del 7 dicembre 1965 la Commissione distrettuale delle imposte dirette di Urbino, nel giudizio relativo al ricorso presentato dal magistrato dott. Savoldelli Pedrocchi Gaetano contro il locale Ufficio distrettuale delle imposte, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 143, comma secondo, lett. a e b, e ultimo comma del D.P.R. 29 gennaio 1958, n. 645, riguardante il testo unico delle leggi sulle imposte dirette, per violazione dell'art. 76 della Costituzione, in quanto detto testo ha disposto che la ritenuta dell'1,50 per cento concernente l'imposta complementare progressiva sul reddito, quando sia a carico dei dipendenti statali, va applicata a titolo di semplice acconto sulle retribuzioni eccedenti le lire 540.000 annue, così abrogando implicitamente il beneficio disposto dall'art. 31 della legge 8 aprile 1952, n. 212, sul trattamento economico dei dipendenti statali, secondo cui la trattenuta stessa andava invece operata a carattere definitivo relativamente alle prime. 600.000 lire d'imponibile. In tal modo, l'impugnata disposizione del testo unico avrebbe ecceduto i limiti della delega di cui all'art. 63 della legge 5 gennaio 1956, n. 1, che autorizzava il Governo ad emanare testi unici concernenti le diverse imposte, senza peraltro concedere, secondo la Commissione, la facoltà di abrogare i benefici fiscali vigenti.

La Commissione ha rilevato, anzitutto, nell'ordinanza che al momento dell'emanazione del testo unico il citato beneficio per i dipendenti statali era in vigore nonostante che la legge 21 maggio 1952, n. 477, art. 2, lo avesse escluso per i redditi di lavoro categoria C/2, in quanto, come ritenuto dalla giurisprudenza, informata al principio affermato dalle sezioni unite della Cassazione con sentenza n. 204 del 1961, tale disposizione che attribuiva natura di acconto alla ritenuta operata sui redditi di lavoro di categoria C/2, non si sarebbe tuttavia riferita né estesa ai redditi dei dipendenti dello Stato, pur compresi in categoria C/2.

D'altra parte, prosegue l'ordinanza, il citato art. 63 avrebbe attribuito al legislatore delegato il potere di "eliminare le disposizioni in contrasto con i principi contenuti nella legge 11 gennaio 1951, n. 25" sulla perequazione tributaria e nella stessa legge delega e di apportare, oltre alle modifiche utili per un migliore coordinamento, quelle necessarie per l'adattamento delle disposizioni all'esigenza di semplificazione nell'applicazione dei tributi e della razionale organizzazione dei servizi, nonché per il perfezionamento delle norme concernenti l'attività dell'Amministrazione finanziaria ai fini del l'accertamento dei redditi. L'attuazione di tali criteri, secondo la Commissione, sarebbe stata peraltro perseguibile attraverso l'adozione di modifiche meramente strumentali e procedurali, e non avrebbe richiesto comunque l'abrogazione del detto beneficio, che non contrastava minimamente con i principi anzidetti né andava comunque eliminato in ossequio alle cennate esigenze di coordinamento.

Nell'ordinanza si aggiunge, poi, che il beneficio di cui al ripetuto art. 31 della legge n. 212 del 1952, cioè il beneficio della definitività della ritenuta, non sarebbe stato abrogato neppure per effetto dell'entrata in vigore dell'art. 1 della legge 28 maggio 1959, n. 361 (successiva al T.U.), il quale, al secondo comma, stabiliva che, a decorrere dal 1 gennaio 1960, la ritenuta di acconto dell'1,50 per cento operata sui redditi di lavoro classificati in categoria C/2 corrisposti ai dipendenti dello Stato ritenuta operata "ai sensi dell'art. 2 della legge 21 maggio 1952, n. 477" cioè come acconto, doveva trovare applicazione "per la parte del reddito eccedente le lire 720.000 ragguagliata ad anno". Invero il richiamo all'art. 2 citato sarebbe pleonastico, dato che la legge avrebbe avuto la limitata finalità di elevare l'imponibile agli effetti dell'imposta complementare, e sarebbe stato sufficiente quindi fare generico riferimento "alla ritenuta di acconto operata sui redditi di lavoro e classificati in categoria C/2 corrisposti ai dipendenti dello Stato". Il cennato richiamo sarebbe altresì anacronistico, posto che l'intera legge n. 477 del 1952, in virtù dell'art. 288, comma primo, lett. a, del T.U. n. 645 del 1958 ha cessato di avere effetto dalla stessa data di entrata in vigore del T.U. cioè dal 1 gennaio 1960, data coincidente con quella indicata dal citato art. 1 della legge n. 361 del 1959 per la decorrenza degli effetti della legge stessa. Questo difetto di coordinamento sarebbe stato successivamente rilevato anche dallo stesso legislatore che, elevando a lire 960.000 il minimo imponibile ai fini dell'imposta complementare con la legge 1 marzo 1964, n. 113, ha fatto riferimento, quanto al sistema delle ritenute di acconto, direttamente all'art. 143 del T.U. n. 645 del 1958.

Ritenuta, pertanto la rilevanza della questione la Commissione disponeva la sospensione del giudizio e ordinava la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale a norma dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87.

L'ordinanza, notificata il 29 marzo 1967 al Presidente del Consiglio ed il 15 precedente al ricorrente ed all 'Ufficio delle imposte e comunicata ai Presidenti dei due rami del Parlamento, é stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 132 del 27 maggio 1967.

Avanti alla Corte costituzionale si sono costituiti il Presidente del Consiglio dei Ministri e l'Amministrazione delle finanze dello Stato, rappresentati e difesi dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha depositato le proprie deduzioni in cancelleria il 13 giugno 1967.

L'avvocatura dà atto espressamente che il problema della applicabilità dell'art. 31 della legge 8 aprile 1952, n. 212, dopo l'entrata in vigore della legge 21 maggio 1952, n. 477, é stato risolto in senso positivo dalla giurisprudenza, con il conseguente riconoscimento del carattere innovativo in materia dell'art. 143 del T.U. 29 gennaio 1958, n. 645 impugnato.

Tuttavia, prosegue l'Avvocatura, da ciò non potrebbe desumersi l'assenta incostituzionalità della norma, dato che con essa il legislatore delegato, in attuazione dei criteri fissati dalla legge delega, avrebbe inteso unificare il trattamento fiscale relativo all'imposta complementare per tutti i prestatori di lavoro subordinato (categoria C/2) con reddito superiore alle lire 540.000, ed a tale fine soltanto avrebbe apportato la denunciata modifica delle norme vigenti, la quale rientrerebbe pertanto nei limiti della delegazione, cui, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, sarebbero stati d'altra parte riconosciuti limiti assai estesi.

Inoltre, secondo l'Avvocatura, anche dopo l'emanazione del T.U. del 1958, il contenuto innovativo dell'art. 143 sarebbe stato ribadito da successive leggi formali, onde la questione sollevata sarebbe attualmente superata. Ed in proposito l'Avvocatura richiama, oltre il già citato art. 1, secondo comma, della legge 28 maggio 1959, n. 361, anche l'art. 1, secondo comma, della legge 1 marzo 1964, n. 113, sulle variazioni del minimo imponibile. In particolare, quanto alla prima delle indicate disposizioni, contestando l'assunto contenuto in proposito nell'ordinanza di rinvio, nega che possa attribuirsi alla legge la sola finalità di elevare il minimo imponibile agli effetti dell'imposta complementare, ed a sostegno di questa tesi richiama la giurisprudenza della Corte di cassazione, secondo cui, appunto, la legge in parola avrebbe confermato la parificazione del sistema di tassazione per tutti gli appartenenti alla categoria C/2 relativamente al minimo imponibile con esplicito riferimento ai dipendenti statali.

L'Avvocatura, a sostegno del suo assunto, indica anche la legge 4 dicembre 1962, n. 1682, che ha sostituito la formulazione dell'art. 143, ultimo comma, del T.U., rapportando nel suo testo, con accentuazione del dato soggettivo, le ritenute in acconto quali operate nei confronti "delle persone indicate nei commi precedenti" (e cioè con riferimento sia ai prestatori di lavoro in genere, sia ai dipendenti statali, sia le persone estranee all'Amministrazione) mentre l'art. 143, parlando di "ritenute previste dai commi precedenti" si era richiamato prevalentemente e formalmente al dato oggettivo.

L'Avvocatura pertanto conclude chiedendo dichiararsi non fondata la suesposta questione.

La stessa Commissione distrettuale di Urbino, con successiva ordinanza del 30 novembre 1967, emessa nel giudizio concernente il ricorso del dipendente statale Bardovagni Zeno contro il locale Ufficio distrettuale delle imposte, ha sollevato identica questione riproducendo sostanzialmente le argomentazioni svolte nella già menzionata ordinanza ed aggiungendo ulteriori considerazioni a sostegno della non manifesta infondatezza della questione medesima.

In particolare la Commissione rileva che, anche se potesse ammettersi che l'art. 31 della legge n. 212 del 1952 sia stato abrogato per effetto dell'art. 288 del T.U. n. 645 del 1958 come sostenuto in quella sede dall'Ufficio delle imposte, ciò non influirebbe sulla questione proposta, poiché, se mai, la censura di illegittimità dovrebbe essere estesa anche a tale ultima norma.

Neppure sarebbe attendibile l'assunto dello stesso Ufficio, secondo cui l'abrogazione sarebbe comunque avvenuta per effetto dell'art. 6 della legge 4 dicembre 1962, n. 1682, che ha sostituito l'ultimo comma dell'art. 143 sopra citato disponendo che "le ritenute operate nei confronti delle persone indicate nei commi precedenti (cioè dipendenti privati e pubblici) sono computate in pagamento dell'imposta dovuta dalle persone medesime sul reddito complessivo netto alla cui formazione gli assegni fissi ed i compensi concorrono per il loro intero ammontare". Invero secondo la Commissione, la disposizione dettata dalla necessità di chiarire i dubbi insorti nell'applicazione dell'art. 143 avrebbe natura interpretativa, e confermerebbe soltanto che il sistema della ritenuta di acconto di cui all'art. 143 del T.U. n. 645 del 1958 si applicherebbe nei confronti di tutti coloro che percepiscono gli assegni fissi ed i compensi previsti nello stesso art. 143, chiarendo che l'importo di lire 720.000 (elevato poi a lire 960.000 per effetto degli artt. 1 e 3 della legge 1 marzo 1964) rappresenta un semplice minimo imponibile e non la franchigia, la quale rimane fissata anche per i redditi nella specie in lire 240.000. D'altra parte, secondo la Commissione, anche se potesse ammettersi l'abrogazione in discorso da essa deriverebbe soltanto l'effetto di far rientrare nel coacervo dei redditi la quota di lire 600.000 preveduta dall'art. 31 sopra citato, anche ai fini della determinazione dell'aliquota progressiva, ma non quello di far considerare come ritenuta di acconto la somma prelevata, a carico dei dipendenti statali, sulla quota predetta, poiché tale sua natura già risulterebbe dal secondo comma dell'art. 143 del T.U. impugnato che resterebbe quindi la norma primaria in contrasto con l'art. 76 della Costituzione.

Dalla illegittimità delle norme impugnate conseguirebbe poi necessariamente, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l'illegittimità del citato art. 6 della legge 1682 del 1962, norma secondaria e derivata rispetto alla prima.

L'ordinanza, notificata il 10 febbraio 1968 all'Ufficio delle imposte e al Presidente dei due rami del Parlamento, é stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 102 del 20 aprile 1968.

Avanti alla Corte costituzionale si é costituito il Bardovagni, rappresentato e difeso dall'avv. Franco Ligi, che ha depositato le proprie deduzioni in cancelleria il 4 aprile 1968.

La difesa del Bardovagni fa proprie, ampliandole e sviluppandole, le argomentazioni contenute nella ordinanza di rinvio a sostegno della non manifesta infondatezza della questione sollevata.

In particolare, la difesa osserva inoltre che se la legge n. 361 del 1959, entrata in vigore insieme al testo unico, avesse voluto revocare il beneficio concesso ai dipendenti statali, lo avrebbe detto con disposizione espressa, ovvero regolando diversamente la materia, e non si sarebbe limitata al puro e semplice richiamo all'art. 2 della legge n. 477 del 1952, che, d'altronde, secondo giurisprudenza non potrebbe in nessun caso ritenersi abrogativo del beneficio concesso agli statali. Considerazioni sostanzialmente analoghe la difesa svolge poi a proposito dell'altra legge 1 marzo 1964, n. 113, la quale si sarebbe limitata a fare riferimento all'art. 143 del T.U. del 1958 per indicare i redditi in relazione ai quali il minimo imponibile era elevato a 960.000 lire, senza nulla innovare in tema di provvisorietà o definitività della ritenuta di acconto in esame.

Altre argomentazioni la difesa svolge per illustrare ulteriormente la tesi secondo cui l'art. 6 della legge del 1962 n. 1682, non avrebbe portato modifiche di sostanza all'art. 143 del T.U., limitandosi a sostituire l'ultimo comma chiarendone il senso, che però, già secondo il testo originario, sarebbe stato quello reso poi più sicuramente manifesto nella stessa disposizione, e cioè che la ritenuta prevista dai commi precedenti operata nelle retribuzioni dei dipendenti statali avrebbe avuto carattere di acconto. Ed invero, afferma la difesa, le somme sulle quali essa ritenuta era stata operata già in forza dell'art. 143 del T.U. concorrevano alla formazione del reddito complessivo netto nel soggetto d'imposta, concorrevano cioè a formare la base dell'imponibile da determinarsi poi ai sensi delle diverse e specifiche disposizioni contenute nel T.U. sulle imposte dirette. Non sarebbe quindi dubbio che la natura non definitiva della ritenuta di acconto in esame trarrebbe la sua base legislativa dai primi due commi dell'art. 143 del ripetuto Testo Unico.

La difesa insiste nell'affermare che anche il nuovo testo dell'ultimo comma dell'art. 143 del T.U. sulle imposte dirette quale dettato dall'art. 6 della legge n. 1682 del 1962, travalicherebbe i limiti della delega conferita al Governo con l'art. 63 della legge 5 gennaio 1956, n. 1, onde l'ordinanza di rimessione andrebbe integrata dalla Corte con la estensione della questione di legittimità alla disposizione del nuovo testo.

Conclude pertanto chiedendo dichiararsi l'illegittimità costituzionale per eccesso di delega delle norme impugnate con l'ordinanza di rinvio, nonché, ai sensi dell'art. 27, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, dell'ultimo comma dello stesso art. 143 tanto nel testo originario quanto in quello risultante a norma dell'art. 6 della legge 4 dicembre 1962, n. 1682.

La difesa del Bardovagni ha depositato nei termini una memoria illustrativa con cui ribadisce e svolge le tesi già proposte, e facendo riferimento alla giurisprudenza della Corte costituzionale riafferma, tra l'altro, che il legislatore delegato, abrogando l'art. 31 della legge 8 aprile 1952, avrebbe apportato modifiche sostanziali e non consentite alla legislazione fiscale vigente. Ciò in quanto la minore aliquota prevista a carico dei dipendenti statali rispetto ai dipendenti privati dalla norma abrogata troverebbe la sua giustificazione nella più elevata retribuzione normalmente percepita dai secondi, e la revoca del beneficio, quindi, con il conseguente aggravamento del carico fiscale sui dipendenti statali, non avrebbe potuto essere disposto neppure in base ai poteri di coordinamento attribuiti al Governo dall'art. 63 della legge delega del 1956.

La difesa sostiene, inoltre, in particolare (con argomentazioni essenzialmente riferite all'analisi della sentenza 1 febbraio 1961 delle sezioni unite della Corte di cassazione) che la parificazione del trattamento fiscale dei dipendenti pubblici a quello dei dipendenti privati (disposta dall'art. 1 della legge n. 361 del 1959, di contenuto innovativo) sarebbe da intendere limitata alla unificazione del minimo imponibile e che per conseguenza, sarebbe arbitrario volerne dedurre la possibilità di estendere la detta parificazione anche al carattere, di acconto o definitivo, della ritenuta in esame.

Insiste pertanto nelle già rassegnate conclusioni.

 

Considerato in diritto

 

Data l'identità delle questioni sollevate con le due ordinanze di cui in epigrafe, può disporsi la riunione delle cause per la loro decisione con unica sentenza.

1. - Entrambe le ordinanze denunciano, sotto il profilo di eccesso di delega legislativa (art. 76 Costituzione), l'art. 143, commi secondo ed ultimo del testo unico delle leggi sulle imposte dirette (D.P.R. n. 645 del 1958) additando per conseguenzialità, quale eventuale oggetto di estensione dell'esame di legittimità costituzionale, anche l'art. 6 della legge 4 dicembre 1962, n. 1682, che ha sostituito la formulazione del predetto art. 143.

I motivi di illegittimità consisterebbero, secondo le ordinanze, in ciò che nessuna delle condizioni poste al Governo dall'art. 63 della legge delega (n. 1 del 1956) per l'emanazione del testo unico, avrebbe autorizzato l'inclusione in questo di una norma che costituisse deroga al beneficio concesso con legge n. 212 dell'8 aprile 1952 (artt. 28-31) ai dipendenti statali e consistente nell'assegnare carattere definitivo (e non di acconto, fino alla concorrenza di lire 600.000 annue) alle trattenute sull'ammontare complessivo dello stipendio, ai fini del soddisfo dell'imposta complementare progressiva sul reddito. Non si sarebbe, infatti, qui trattato, né di eliminare disposizioni in contrasto con i principi della legge n. 25 dell'11 gennaio 1951 sulla perequazione tributaria e della stessa legge delega, né di apportare modifiche utili per un miglior coordinamento né modifiche necessarie per soddisfare esigenze di semplificazione nell'applicazione dei tributi e di razionale organizzazione dei servizi. Tutto si sarebbe, invece, risolto in una inammissibile eliminazione di un beneficio che, per motivi razionali, il sistema vigente accordava ad una categoria di contribuenti.

Secondo le ordinanze, non avrebbe, in contrario, importanza decisiva il fatto che, dopo l'emanazione del testo unico, sia intervenuta la legge 28 maggio 1959, n. 361, a qualificare "ritenuta di acconto" quella operata sui redditi di lavoro corrisposti, in categoria C/2 ai dipendenti dello Stato, perché si tratterebbe di un particolare secondario di fronte allo scopo primario della legge avente per oggetto, come dal titolo, la elevazione del minimo imponibile: lo stesso oggetto di cui alla successiva legge n. 113 del 1964 di contenuto identico. Né, secondo le ordinanze, avrebbe importanza che la formulazione dell'art. 143, ultimo comma, del testo unico sia stata sostituita con quella, più incisiva nel senso della ritenuta di acconto, contenuta nella citata legge n. 1682 del 1962, poiché questa ultima formulazione, oltre a non avere carattere interpretativo dell'articolo che ha sostituito, né carattere innovativo, costituisce soltanto una miglior formulazione della norma per dirimere il dubbio se soltanto le somme sulle quali si operano le ritenute concorrano alla formazione del reddito complessivo netto sul quale é dovuta l'imposta complementare.

La Corte ritiene che nessuno dei motivi, esposti nelle ordinanze e poi sviluppati nelle deduzioni difensive, valgano a contrastare la conseguenza della inammissibilità della questione proposta.

2. - Va osservato, anzitutto, che, per disposizione dell'art. 277 del T.U., la data di applicazione dello stesso, anche per la parte riguardante le ritenute, considerate in acconto, sugli assegni fissi e sugli altri compensi dei dipendenti statali, é stabilita con decorrenza dal 1 gennaio 1960.

Uguale decorrenza é stabilita per le disposizioni contenute nella legge 28 maggio 1959, n. 361, che, con riferimento alle ritenute sui redditi di lavoro dei dipendenti statali, la qualifica e la regola nelle modalità della loro applicazione, a titolo di acconto, alla pari delle ritenute per i redditi di lavoro, classificati ora tutti in categoria C/2, dopo l'abolizione della categoria D, già peculiare ai redditi degli statali.

Questa coincidenza cronologica nell'attuazione, per la parte in esame, dell'uno e dell'altro provvedimento legislativo, costituisce, unitamente al rilievo della coincidenza del rispettivo contenuto, elemento determinante di decisione.

Invero, se, come la Corte ritiene, la legge del 1959 ha recepito, sul punto, in modo univoco, il principio, contenuto nella legge delegata, facendolo proprio ed operante, come espressione di volontà normativa, non resta più margine utile per la verifica del denunciato vizio d'origine dell'art. 143, commi secondo ed ultimo, del testo unico a motivo di non conformità alla delega.

Qualunque possa essere l'esito del raffronto tra legge delegante, legge delegata ed art. 76 della Costituzione, sarà, in ogni caso, la legge ordinaria del 1959, non sottoposta a sindacato di costituzionalità, a regolare il rapporto d'imposta in esame. La quale legge ordinaria, riproduttiva di principi già dichiarati, dà luogo ad una disposizione nuova che vive di vita propria ad ogni effetto, come già questa Corte ha avuto occasione di stabilire con sentenza 27 gennaio 1959, n. 2.

Aggiungasi che il principio della non definitività della ritenuta di acconto per i dipendenti statali, é stato anche ribadito con l'avvicendarsi di leggi successive, che ne hanno prolungato nel tempo gli sviluppi, e cioè la legge n. 1682 del 1962 e la legge n. 113 del 1964: la prima delle quali, richiamandosi alla formulazione dell'art. 143 del T.U., ha inteso accentuarne, con formulazione netta, il riferimento ai dipendenti statali.

3. - Le ordinanze di rinvio e la difesa Bardovagni osservano che, avendo la legge n. 361 del 1959 per oggetto, dichiarato nella sua intitolazione, l'aumento del minimo imponibile, ciò costituirebbe, di per sé, sufficiente motivo per escludere che alle residue enunciazioni contenute nel testo, possa attribuirsi efficacia normativa.

Ma il titolo di una legge é soltanto un elemento indicativo che non si incorpora con la legge in modo tale da sovrapporsi alle singole norme concrete. Solo in caso di dubbio significato delle norme, il titolo potrebbe eventualmente contribuire alla loro interpretazione, il che, nel caso, va escluso per le ragioni suesposte.

Si rileva altresì, sempre per contestare che la legge del 1959 regoli essa stessa la materia nel senso di assegnare la ritenuta operata sugli assegni dei dipendenti statali il carattere di acconto, che nessun elemento potrebbe ricavarsi dal richiamo che la legge fa all'art. 2 della legge 21 maggio 1952, n. 477, in cui la ritenuta per i redditi di categoria C/2 é dichiarata operante "a titolo di acconto": ciò in quanto il richiamo sarebbe del tutto secondario ed addirittura pleonastico, posto che, per l'art. 288, lett. a, del testo unico del 1958, la predetta legge veniva abrogata a decorrere dal gennaio 1960, cioè dalla stessa data di entrata in vigore della legge del 1959.

Ma, se é esatto il rilievo della coincidenza di date, non lo é altrettanto l'illazione che si vorrebbe trarne, in quanto il richiamo alla legge del 1952 ha un suo chiaro significato, il quale riguarda il modo di "operare" la ritenuta e non il titolo della stessa, che trova la sua qualificazione nel residuo contesto della legge del 1959.

4. - Dato che dall'eliminazione dall'ordinamento giuridico della norma impugnata non potrebbe conseguire alcun risultato rilevante per il giudizio a quo, devesi pronunciare l'inammissibilità della questione stessa perché manifestamente irrilevante.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 143, comma secondo, lett. a e b, e ultimo comma, del D.P.R. 29 gennaio 1958, n. 645, contenente il testo unico delle leggi sulle imposte dirette, sollevata con ordinanze 7 dicembre 1965 e 30 novembre 1967 dalla Commissione distrettuale delle imposte dirette di Urbino.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 novembre 1968.

 

Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE 

 

Depositata in cancelleria il 28 novembre 1968