Sentenza n. 84 del 1968
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SENTENZA N. 84

ANNO 1968

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Aldo SANDULLI, Presidente

Dott. Antonio MANCA

Prof. Giuseppe BRANCA

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI,

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei Ministri notificato il 24 novembre 1967, depositato in cancelleria il 13 dicembre successivo ed iscritto al n. 32 del Registro ricorsi 1967, per conflitto di attribuzione tra lo Stato e la Regione siciliana sulla competenza a decidere i ricorsi gerarchici contro le ordinanze con le quali gli Intendenti di finanza irrogano pene pecuniarie agli esattori delle imposte dirette.

Visto l'atto di costituzione della Regione siciliana;

udita nell'udienza pubblica del 10 maggio 1968 la relazione del Giudice Giuseppe Chiarelli;

uditi il sostituto avvocato generale dello Stato Francesco Agrò, per il Presidente del Consiglio dei Ministri, e l'avv. Pietro Virga, per la Regione siciliana.

 

Ritenuto in fatto

 

L'Assessore alle finanze della Regione siciliana, con circolare 21 luglio 1967, invitava gli Intendenti di finanza della Sicilia a trasmettere all'Assessorato i ricorsi gerarchici pendenti contro le ordinanze intendentizie irrogative di pene pecuniarie agli esattori delle imposte dirette. Si affermava nella circolare che la competenza a decidere tali ricorsi era stata trasferita alla Regione, per effetto del D. P. R. 26 luglio 1965, n. 1074, che, con l'art. 3, ha attribuito alla Regione le entrate derivanti dall'applicazione di sanzioni pecuniarie, e, con l'art. 8, ha disposto che per l'esercizio delle sue funzioni la Regione si avvale degli uffici periferici dell'Amministrazione statale. Gli atti dell'Intendente di finanza applicativi delle predette sanzioni dovevano quindi considerarsi quali atti amministrativi regionali, e come tali gerarchicamente impugnabili presso l'Assessore alle finanze.

Con atto 13 dicembre 1967 il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ha sollevato conflitto di attribuzione davanti a questa Corte, chiedendo che sia dichiarata la competenza dello Stato (Ministro delle finanze) a decidere i predetti ricorsi e che sia conseguentemente annullata l'indicata circolare dell'Assessore regionale. Si afferma nel ricorso il particolare carattere sanzionatorio e arbitratorio del potere dell'Intendente di finanza di applicare le predette sanzioni, che si differenzia dall'attività di vigilanza e controllo sugli agenti di riscossione, ed é manifestazione del principio unitario dello Stato. Si rileva inoltre che la legge 7 gennaio 1929, n. 4, a cui rinvia l'art. 150 del T.U. n. 858 del 1963 sulla riscossione delle imposte dirette, pone dei principi generali in materia tributaria propri ed esclusivi dello Stato ed attribuisce agli organi competenti poteri non delegabili né derogabili in sede regionale. Ne discende che il potere dell'Intendente nell'irrogare la pena pecuniaria é potere statale, così come statale é il potere del Ministro di decidere il ricorso gerarchico avverso l'ordinanza dell'Intendente.

Si é costituito in giudizio il Presidente della Regione siciliana, rappresentato e difeso dagli avvocati prof. Pietro Virga e Antonio Sorrentino, con atto 11 dicembre 1967.

In esso si contrasta la tesi del carattere paragiurisdizionale dei provvedimenti emessi dall'Intendente di finanza ai sensi dell'art. 150 del T.U. del 1963, di cui si afferma invece la natura esclusivamente amministrativa, corrispondente alla natura amministrativa delle sanzioni di cui trattasi. Si osserva inoltre che, mentre nella precedente disciplina provvisoria dei rapporti tra Stato e Regione in materia finanziaria mancava una esplicita norma di attuazione che disponesse la sottoposizione degli organi statali periferici all'autorità regionale, con l'art. 8 del D. P. R. n. 1074 del 1965 si é istituito tra tali organi e la regione quel vincolo gerarchico che costituisce il presupposto per la decisione dei ricorsi, ed é stato così rimosso l'ostacolo a riconoscere la competenza della Regione e decidere i ricorsi gerarchici contro i predetti provvedimenti, emessi dall'Intendente di finanza nell'esercizio di una competenza regionale.

Si ammette, infine, che la legge n. 4 dei 1929 e il T.U. n. 858 del 1963 contengono principi generali dell'ordinamento finanziario dello Stato, ma si esclude che da ciò derivi che solo il Ministro e non l'Assessore regionale possa decidere i ricorsi sulla base di tali principi, di cui nel presente giudizio non é stata denunciata la violazione da parte dell'Assessore.

La difesa dello Stato, in successiva memoria, ha ribadito gli argomenti del ricorso, insistendo particolarmente nel rilevare che il punto centrale di esso é dato dalla legge n. 4 del 1929, nel suo valore di corpus di principi generali e fondamentali dell'ordinamento normativo statale, che non sopportano deroghe e deleghe a favore degli ordinamenti regionali. Si osserva inoltre che la circolare impugnata non ha per oggetto la riscossione dei tributi di spettanza regionale, ma la fase successiva del contenzioso esattoriale, che concerne materia non trasferita né trasferibile alla Regione, nella quale il D.P.R. n. 1074 del 1965 non ha portato innovazioni.

Anche la difesa della Regione ha depositato memoria nei termini. In essa si richiama la sentenza n. 122 del 1967 di questa Corte, da cui si ricaverebbe la esclusiva dipendenza degli uffici statali dall'Assessore regionale sul piano della funzione di riscossione dei tributi. Si insiste quindi sul carattere amministrativo, e non "giustiziale", della decisione dell'Intendente, e si nega l'incidenza di esse sull'ordinamento generale dello Stato.

Nella discussione orale le difese delle parti hanno sviluppato i rispettivi argomenti.

 

Considerato in diritto

 

1. Secondo la tesi della Regione siciliana, affermata nella circolare che ha dato luogo al presente conflitto e sostenuta nel corso del giudizio, per effetto dell'art. 3 del D. P. R. 26 luglio 1965, n. 1074, che ha attribuito alla Regione le entrate "derivanti dall'applicazione di sanzioni pecuniarie amministrative e penali", rientrerebbe nel complesso delle competenze trasferite alla Regione con tale decreto l'applicazione di sanzioni pecuniarie agli esattori delle imposte dirette. E poiché, a norma dell'art. 8 dello stesso decreto, la Regione si avvale, per l'esercizio delle funzioni ad essa spettanti, degli organi periferici dello Stato, l'Intendente di finanza, nell'irrogare le dette sanzioni, porrebbe in essere atti amministrativi regionali. I ricorsi gerarchici contro di essi andrebbero quindi proposti all'Assessore regionale alle finanze.

A questa tesi si oppone, da parte del Presidente del Consiglio, che l'Intendente di finanza, nel decidere l'applicazione di pene pecuniarie nei confronti degli agenti di riscossione e nel risolvere le controversie dipendenti dal rapporto di gestione dell'esattoria, esercita un potere di carattere paragiurisdizionale, che é manifestazione del principio unitario dello Stato. Tale potere gli é direttamente attribuito dalla legge 7 gennaio 1929, n. 4, la quale costituisce un corpo di disposizioni che non si confonde nella normativa portata del testo unico sui servizi di riscossione delle imposte dirette, e attribuisce agli organi competenti poteri non delegabili in sede regionale. Il decreto presidenziale n. 1074 del 1965 non avrebbe, pertanto, innovato in materia di contenzioso relativo all'applicazione delle pene pecuniarie, e l'art. 8 di esso non comporterebbe la competenza dell'Assessore regionale a decidere, in luogo del Ministro, i ricorsi avverso le ordinanze intendentizie.

2. - Osserva la Corte che la questione fondamentale per la risoluzione del conflitto é se la devoluzione alla Regione delle entrate derivanti dall'applicazione di sanzioni pecuniarie implichi la legittimazione della Regione stessa alla irrogazione delle sanzioni che a tali entrate danno luogo.

Ritiene la Corte che al quesito debba darsi risposta negativa.

L'assegnazione dei proventi di determinate pene pecuniarie ad un ente, anche se fornito, come la Regione, di potestà legislativa e tributaria, non é attribuzione all'ente del potere di irrogare le pene stesse. É appena il caso di osservare che se, per ipotesi, fosse attribuito a un determinato ente pubblico il provento di multe o ammende previste dalla legge penale, non per questo sarebbe attribuita all'ente la potestà punitiva, anche a prescindere dal carattere esclusivamente statale di tale potestà.

Né si potrebbe, nel caso in esame, invocare il parallelismo, già rilevato in precedenti sentenze di questa Corte, tra spettanza di un tributo e potestà tributaria, inteso nel senso che, di massima, l'ente a cui spetta il tributo può disporre intorno ad esso, sempre nei limiti e secondo i principi dell'ordinamento tributario generale, e svolgere la connessa attività amministrativa. A parte che é da distinguere la potestà di imposizione dal diritto al provento di un tributo imposto da un altro ente, nel caso in esame non si tratta di entrate tributarie, e neanche connesse a tributi (come le soprattasse e gli interessi di mora, a carico del contribuente), ma si tratta di proventi derivanti dall'esercizio di una potestà diversa dalla tributaria, e precisamente dall'esercizio di un potere sanzionatorio, che, se ha per oggetto attività che si svolgono in materia tributaria, si distingue però dal potere di imposizione e di riscossione di tributi, ed é regolato da un proprio ordinamento.

Nessun argomento può trarsi, pertanto, dalla considerazione che il decreto n. 1074 del 1965 ha trasferito alla Regione le funzioni esecutive ed amministrative ad essa spettanti in materia tributaria, per cui dopo l'entrata in vigore di esso, gli esattori non riscuoterebbero più tributi di spettanza statale e competerebbe alla Regione ogni potestà amministrativa connessa alle imposte dirette.

Già nella sentenza n. 48 del 1965 fu rilevato che, pur essendo passata alla Regione siciliana la materia della riscossione dei tributi e l'organizzazione del servizio esattoriale, nella materia trasferita non erano comprese quelle funzioni di sorveglianza sull'esecuzione del rapporto esattoriale che danno luogo all'applicazione di sanzioni amministrative, e in particolare alla irrogazione delle cosiddette pene pecuniarie, e che costituiscono un sistema, unitariamente disciplinato, di attività sopraordinate al servizio di riscossione, nel quale non possono essere considerate confuse. Pertanto, si ritenne che alla Regione non fossero state attribuite le funzioni relative all'irrogazione delle dette sanzioni, non già per la ragione che non fossero state ancora trasferite le funzioni spettanti alla Regione in materia tributaria, e neanche per la ragione che l'applicazione di quelle sanzioni sia di esclusiva competenza dello Stato (questione rimasta al di fuori della pronuncia), ma perché esse sono funzioni sostanzialmente distinte da quelle che avevano formato oggetto di trasferimento. E ciò si deduceva dalla sostanziale diversità dell'attività sanzionatoria e dell'attività di riscossione, risalente alla distinzione tra potestà sanzionatoria e potestà tributaria; dal diverso livello a cui si esplicano le predette attività; dal carattere unitario dell'ordinamento delle attività sanzionatorie in materia fiscale, che costituisce un sistema organico, differenziato dall'ordinamento dell'imposizione e della esazione dei tributi, e che ha il suo testo fondamentale nella legge 7 gennaio 1929, n. 4, contenente "norme generali" per la repressione delle violazioni delle leggi finanziarie.

Le stesse ragioni valgono rispetto alla norma dell'art. 3 del decreto n. 1074 del 1965, che si é limitata ad assegnare alla Regione le entrate derivanti dall'applicazione di sanzioni pecuniarie.

Anche se, per ipotesi, il trasferimento alla Regione del predetto potere sanzionatorio fosse consentito dall'ordinamento generale, esso avrebbe richiesto una esplicita attribuzione, che non é compresa nell'attribuzione dei proventi. Vi é un salto logico nel passaggio dalla esatta affermazione che il citato art. 3 ha derogato, per quanto riguarda la Regione siciliana, agli artt. 24 del D.L. n. 1465 del 1930 e 150 del D. P. R. n. 858 del 1963 (che attribuiscono quei proventi allo Stato) alla affermazione che sia stato trasferito il potere di applicare le sanzioni, come vi é un salto logico nel passaggio dall'affermazione che, col decreto n. 1074 del 1965, si é avuto il trasferimento delle funzioni spettanti alla Regione, all'affermazione che sia di spettanza di questa, non il provento, ma l'applicazione delle sanzioni.

Non può pertanto ritenersi che l'esercizio del potere sanzionatorio, previsto e regolato dalla legge 7 gennaio 1929, n. 4, a cui si richiama l'art. 20 del T.U. sulla riscossione delle imposte dirette (D.L. 6 novembre 1930, n. 1465), abbia formato oggetto delle norme di attuazione dello Statuto siciliano in esame, allo stesso modo che non aveva formato oggetto delle precedenti norme sul regolamento provvisorio dei rapporti tra Stato e Regione in materia finanziaria.

Ne consegue che l'Intendente di finanza, nell'applicazione delle sanzioni, svolge una funzione statale non trasferita alla Regione.

É inoltre da tener presente che le funzioni esattoriali non riguardano soltanto la riscossione di tributi di spettanza regionale.

4. - Ulteriore, e diretta, conseguenza delle esposte considerazioni é che appartiene tuttora al Ministro delle finanze la competenza a decidere i ricorsi in materia.

Va osservato a questo proposito che non é pertinente, ai fini del presente giudizio, stabilire se, col disporre che la Regione si avvale degli organi periferici dello Stato per l'esercizio delle funzioni ad essa spettanti, si sia istituito un rapporto di dipendenza gerarchica. A parte che la questione non avrebbe in nessun caso rilievo, perché un ricorso amministrativo potrebbe essere stabilito dall'ordinamento anche in mancanza di esso (cosiddetto ricorso gerarchico improprio), la definizione del rapporto tra organi dello Stato e Regioni può avere importanza in relazione alle funzioni di spettanza di quest'ultima svolte dai primi, non già in relazione a quelle funzioni che, per essere rimaste dello Stato, non possono essere svolte che dagli organi dello Stato come tali, e non come organi di cui si avvale la Regione.

Ugualmente estranea alla presente controversia é la classificazione dell'atto dell'intendente come atto amministrativo o come atto paragiurisdizionale. Certo la Regione può avvalersi degli organi dello Stato solo per lo svolgimento di attività amministrative ("per l'esercizio delle funzioni esecutive ed amministrative", dice l'art. 8); ma non basta la natura amministrativa dell'atto per dedurne la competenza della Regione, richiedendosi che si tratti di attività amministrativa a questa "spettante".

Le ragioni innanzi indicate escludono che tale sia l'attività dell'Intendente nell'applicazione delle sanzioni, in qualunque modo possa essere qualificata, non essendo passata alla Regione la competenza relativa per effetto di una norma che ha soltanto disposto l'attribuzione alla Regione delle entrate derivanti dall'applicazione delle sanzioni stesse.

Si deve dunque concludere che, ferma restando la competenza della Regione in materia di riscossione dei tributi ad essa assegnati, poiché l'attività relativa all'applicazione delle pene pecuniarie di cui alla legge n. 4 del 1929, richiamata dall'art. 150 T.U. del 1963 sulla riscossione delle imposte dirette, é rimasta attività statale, l'Intendente di finanza agisce, nello svolgimento di essa, come organo dello Stato nell'esercizio di una funzione statale. Spetta quindi al Ministero delle finanze la decisione dei ricorsi contro i suoi atti, come disposto dall'art. 24, quarto comma, del D.L. 6 novembre 1930, n. 1465.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara la competenza dello Stato (Ministro delle finanze) a decidere i ricorsi avverso le ordinanze intendentizie che irrogano pene pecuniarie agli esattori delle imposte, e annulla la circolare dell'Assessore alle finanze della Regione siciliana 21 luglio 1967, n. 18459.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 2 luglio 1968.

 

Aldo SANDULLI - Antonio MANCA - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI

 

Depositata in cancelleria il 5 luglio 1968.