Sentenza n. 58 del 1967
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SENTENZA N. 58

ANNO 1967

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Gaspare AMBROSINI, Presidente

Prof. Antonino PAPALDO

Prof. Nicola JAEGER

Prof. Giovanni CASSANDRO

Prof. Biagio PETROCELLI

Dott. Antonio MANCA

Prof. Aldo SANDULLI

Prof. Giuseppe BRANCA

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI, 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 271, primo comma, del Codice civile, promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 28 maggio 1965 dal Tribunale di Torino nel procedimento civile vertente tra Ginepro Pugno Giorgio e Pugno Evasio e Pia, iscritta al n. 206 del Registro ordinanze 1965 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 326 del 31 dicembre 1965;

2) ordinanza emessa l'8 novembre 1965 dal Tribunale di Roma nel procedimento civile vertente tra Cappellacci Maria Nicoletta, Colasanti Ricci Giulio Mario e Marini Maria ved. Ricci, iscritta al n. 36 del Registro ordinanze 1966 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 105 del 30 aprile 1966.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri e di costituzione di Ginepro Pugno Giorgio, Pugno Evasio e Pia, Cappellacci Maria Nicoletta, Colasanti Ricci Giulio Mario e Marini Maria ved. Ricci;

udita nell'udienza pubblica del 15 marzo 1967 la relazione del Giudice Costantino Mortati.

uditi gli avvocati Gioacchino Magrone, per la Cappellacci, Cesco Nigro, per il Colasanti Ricci e la Marini, Jacopo Durandi, per i Pugno, ed il sostituto avvocato generale dello Stato Gastone Dallari, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Con atto di citazione, notificato il 4 ottobre 1963, il signor Giorgio Ginepro Pugno conveniva avanti al Tribunale di Torino i coniugi Pugno Evasio e Pugno Pia ved. Sacerdote per sentire dichiarare, ai sensi e per gli effetti dell'art. 269 del Codice civile, che esso attore é figlio naturale del fu Pugno Umberto, dante causa dei convenuti. Contro tale istanza costoro eccepirono la improponibilità, essendo decorso, già prima della notifica della citazione, il termine di cui all'art. 271 del Codice civile. Poiché l'attore ebbe a sollevare questione di illegittimità costituzionale dell'art. 271, primo comma, nella parte relativa all'introduzione del predetto termine, per violazione degli artt. 3 e 30, terzo comma, della Costituzione, il Tribunale, con sua ordinanza del 28 maggio 1965, accertata la rilevanza della risoluzione della proposta questione al fine della decisione della causa, la ritenne non manifestamente infondata, in base alla considerazione che, una volta dichiarata, per effetto della sentenza di questa Corte n. 7 del 1963, la incostituzionalità dell'art. 123 delle disposizioni di attuazione del Codice civile, l'osservanza del termine predetto é venuta a determinare una ingiustificata discriminazione fra i nati prima del 1 luglio 1939, i quali non possono mai giovarsi del principio affermato con la citata sentenza, e quelli nati successivamente, per i quali si rende possibile proporre tempestiva azione, e nella considerazione altresì che analoga censura di non giustificata diversità di trattamento é prospettabile anche ove si confronti la situazione dei nati prima della data suindicata che si trovino nelle condizioni di cui al n. 2 dell'art. 269 per i quali si rende possibile la proposizione dell'azione entro due anni dal passaggio in giudicato della sentenza, o dalla scoperta del documento attestativo della paternità, e quella degli altri per i quali il titolo giustificativo dell'azione deriva dal n. 1. L'ordinanza, con cui il Tribunale ha disposto la sospensione del giudizio e l'invio degli atti alla Corte costituzionale, é stata regolarmente notificata e comunicata e pubblicata nel n. 326 della Gazzetta Ufficiale del 31 dicembre 1965.

Si é costituito avanti alla Corte l'attore, rappresentato e difeso dagli avvocati Arturo Colonna e Carlo Fornario, i quali nelle deduzioni depositate il 23 settembre 1965, fanno rilevare come i limiti entro i quali sono venuti ad essere contenuti gli effetti della pronuncia della Corte, quando questa si innesti nella preesistente intelaiatura normativa della filiazione naturale, sono tali da determinare nuove lesioni del principio di eguaglianza, nonché dell'altro principio consacrato nell'art. 30, che impone apposita tutela della filiazione naturale. Ciò perché alla data della pubblicazione della sentenza della Corte il termine di cui all'art. 271 era decorso per tutti i nati anteriormente al 1 luglio 1939, sicché costoro non potrebbero mai avvantaggiarsi della statuizione in essa consacrata, salvo che nel caso previsto dal n. 2 dell'art. 269 per cui il termine é spostato a due anni dalla formazione del giudicato o dal rinvenimento dei documenti contenenti la dichiarazione di paternità. Sicché, volendo mantenere fermi, pur dopo la sentenza della Corte, i termini dell'art. 271, si verrebbe a dar vita a ben quattro diverse situazioni in cui possono venirsi a trovare i figli naturali, ai fini della proponibilità dell'azione di riconoscimento, secondo il fortuito rapporto che può venire a verificarsi fra la data della nascita e gli eventi invocabili a fondamento dell'azione medesima. Aggiunge che il termine di decadenza di cui all'art. 271, oltre a riuscire contrario al principio di eguaglianza e di tutela degli illegittimi, é estraneo alla nostra tradizione giuridica, che, di regola, attribuisce carattere di imprescrittibilità alle situazioni relative allo status familiare (come per es. avviene per la ricerca della maternità). Conclude chiedendo che sia dichiarata l'incostituzionalità del termine di decadenza dell'art. 271, o comunque della disciplina della sua decorrenza.

Si sono costituiti anche i signori Pugno, rappresentati e difesi dagli avvocati Jacopo Durandi, Ferdinando Rango di Aragona e Giovanni Anzà, con deduzioni del 30 settembre 1965, nelle quali si sostiene che la Corte ha già con la sentenza n. 7 citata riconosciuto implicitamente, in quanto ha escluso l'applicazione dell'art. 27 della legge n. 87 del 1953, la piena legittimità costituzionale dell'art. 271, sicché la questione sollevata, riguardando un'applicazione della legge al caso concreto, esula dalla sua competenza e va rigettata.

Con successiva memoria, depositata il 2 marzo 1967 le stesse parti ribadiscono il rilievo ora menzionato ed, a chiarirne la portata, fanno osservare come la sentenza stessa ha lasciato in vigore il terzo comma dell'art. 123, il quale assoggetta al termine dell'art. 271 l'azione di riconoscimento per i casi previsti dal Codice del 1865, che pure non poneva ad essa alcun termine.

Fanno poi considerare che l'attore avrebbe potuto chiedere al magistrato ordinario, anche prima dell'entrata in vigore della Costituzione, la disapplicazione dell'art. 123, dato che la distinzione effettuata dal medesimo fra i nati prima e dopo il 1 luglio 1939 doveva considerarsi invalida perché, come norma di attuazione, non avrebbe dovuto contrastare con l'art. 271, che non la menziona in alcun modo. Che, in ogni caso, nei riguardi dell'attore medesimo, il termine dell'art. 271 veniva a scadere dopo l'entrata in vigore della Costituzione, sicché si sarebbe ben potuto da lui proporre la questione di incostituzionalità, ai sensi della VII disposizione transitoria, e non essendo ciò stato fatto, non si può ora in alcun modo riparare alla precedente inadempienza. Insiste nelle conclusioni già prese.

É intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, con deduzioni in data 20 gennaio 1966. Inesse, dopo avere fatto considerare quanto già dedotto dai resistenti privati circa la possibilità che il Ginepro avrebbe avuto di denunciare la incostituzionalità ora dedotta, avanti ai giudici ordinari, ai sensi della VII disposizione transitoria, rileva che la decadenza del termine per i nati prima del 1939 corrisponde all'esigenza di certezza, che impone il rispetto delle situazioni divenute definitive, ed é ritenere che l'apposizione di limiti temporali all'esercizio di un diritto può creare pregiudizi di fatto, non già violare l'art. 3 della Costituzione. Violazione di tale articolo non può riscontrarsi neppure pel fatto che l'art. 269, n. 2, consente la riapertura del termine nei casi di sentenza passata in giudicato o di rinvenimento di nuovo documento, dato che é inerente alla natura di tali eventi un simile effetto. Anche sotto il riguardo dell'art. 30 della Costituzione la questione si palesa infondata, dato che limiti al riconoscimento della paternità naturale sono da esso previsti, e quello stabilito nella specie non ha carattere odioso a danno dei figli. Aggiunge che ha errato il Tribunale di Torino nel ritenere che il venir meno della preclusione di cui all'art. 123 in conseguenza della sentenza di questa Corte debba avere per effetto l'esperibilità dell'azione di paternità prescindendo da limiti temporali, operando cioè una remissione in termini. Tale remissione potrà essere oggetto di un provvedi mento legislativo (che sembra essere già allo studio), ma non mai effettuarsi per opera del giudice costituzionale.

Con memoria depositata il 27 febbraio 1967 l'Avvocatura, dopo avere ribadito le precedenti osservazioni, mette in rilievo che una declaratoria di illegittimità costituzionale non farebbe conseguire il risultato sperato dall'attore, perché non si potrebbe ammettere la totale invalidità del termine dell'art. 271, e neppure sottrarre ad esso solo una ristretta cerchia di interessati, che verrebbero a godere di un vero privilegio. Insiste nel chiedere una pronuncia di infondatezza della questione.

2. - Con altra ordinanza dell'8 novembre 1965, emessa nel corso di un giudizio promosso avanti al Tribunale di Roma da Maria Nicoletta Cappellacci contro Maria Marini ved. Ricci e Giulio Mario Colasanti Ricci, per riconoscimento di filiazione naturale da Rolando Ricci, dante causa dei convenuti, é stata sollevata analoga questione di illegittimità costituzionale dell'art. 271 del Codice civile, nella considerazione che questa, rilevante per la decisione della causa, non può ritenersi infondata, in quanto il breve termine di decadenza dall'articolo stesso disposto appare contrastante con l'esigenza di assicurare ogni possibile tutela della filiazione naturale, qual é imposta dall'art. 30 della Costituzione. L'ordinanza debitamente notificata e comunicata é stata pubblicata nel n. 105 della Gazzetta Ufficiale del 30 aprile 1966.

Si é costituita avanti alla Corte la signora Cappellacci, rappresentata e difesa dall'avv. Gioacchino Magrone, con deduzioni depositate il 16 febbraio 1966. In queste, richiamate le sentenze nn. 7 del 1963 e 70 del 1965, si afferma che da esse risulterebbe affermato il principio del carattere immediatamente precettivo ed innovativo dell'art. 30, terzo comma, della Costituzione, nel senso di assicurare ai figli nati fuori del matrimonio, fra le varie forme di tutela quella (da considerare più importante delle altre) costituita dall'azione di riconoscimento della paternità naturale; limitabile sì dalla legge, ma solo a patto che il limite non sia tale da far venire meno la protezione voluta assicurare, e si giunge alla conclusione che l'apposizione di un breve termine di decadenza all'esperimento dell'azione predetta produce un effetto di tal genere contraddicendo agli intenti che hanno ispirato l'articolo stesso. Articolo che pure se modificato nella stesura originaria del progetto di costituzione, ha conservato immutato il primo comma che impone ai genitori naturali il dovere di mantenere, educare ed istruire i figli, e quindi esige l'attribuzione a costoro di uno status familiare, senza di che quel dovere rimarrebbe lettera morta. Si procede poi, nelle deduzioni, ad una diffusa esposizione delle norme del Codice civile del 1865 e dei lavori preparatori del nuovo Codice, e se ne deduce che in quella fase della legislazione e nei progetti di riforma non sussisteva il termine, che venne poi apposto dall'art. 271, disponendosi invece una disciplina unitaria, tanto per la ricerca della paternità quanto per quella della maternità. Si afferma altresì che la ragione del mantenimento dei limiti alla ricerca della paternità fu dai riformatori del Codice fatta consistere nell'esigenza di preservare i giovani o gli uomini facoltosi dalla possibilità di insidie e di ricatti, non già dalla necessità di salvaguardare gli interessi della famiglia legittima. Tale essendo la genesi dell'attuale art. 271, si deve ritenere che il termine da esso apposto, risultando ispirato ad una ratio diversa da quella che, secondo l'art. 30 della Costituzione, dovrebbe presiedere ai rapporti relativi alla filiazione naturale, sia con esso contrastante. Conclusione convalidata anche dal fatto che per i rapporti medesimi, allorché riguardano l'azione di riconoscimento della maternità, si fa valere il principio della imprescrittibilità dell'azione: ciò che non si concilierebbe con l'esigenza di tutela della famiglia legittima se fosse vero che lo scopo del limite posto dall'art. 271 si rivolgesse ad assicurare tale tutela. E poiché l'imprescrittibilità é principio che vale per tutte le azioni riguardanti diritti indisponibili, come sono quelle di stato, appare abnorme la disposizione denunciata dettata per la ricerca della paternità, mentre limiti nei riguardi di questa devono ritenersi consentiti solo se rivolti (oltre che ad escludere l'attribuzione dello status di figli naturali agli adulterini ed incestuosi) ad assicurare la preminenza dei membri della famiglia legittima rispetto a quella naturale.

Si fa poi osservare che la restrizione posta dall'art. 271 appare assolutamente ingiustificata nella fattispecie che ha dato luogo alla presente controversia, dato che il mancato esperimento della azione nel termine non é dovuto ad inerzia dell'interessata (il cui rapporto di filiazione naturale era stato già accertato giudizialmente, al fine dell'attribuzione dell'assegno alimentare) ma per l'esistenza dell'art. 123 delle disposizioni di attuazione, dato che costei é nata prima del luglio 1939.

Dopo avere affermato che la maggiore ampiezza consentita alla ricerca della paternità gioverà ad accrescere il senso della responsabilità in chi dà vita a prole illegittima e quindi, indirettamente, a potenziare la famiglia legittima, conclude chiedendo che venga dichiarata la incostituzionalità del termine previsto dall'art. 271.

Si sono costituiti anche i convenuti Colasanti - Marini, rappresentati e difesi dall'avv. Cesco Nigro, che, nelle deduzioni depositate l'11 giugno 1966, sostiene che il termine di cui si contesta la legittimità, mentre soddisfa l'esigenza della certezza e stabilità dei rapporti giuridici inerenti alla famiglia legittima, trova il suo testuale fondamento nell'ultimo comma dell'art. 30 della Costituzione che demanda al legislatore di fissare i limiti per la ricerca della paternità e conclude chiedendo che la questione venga dichiarata infondata.

In una successiva memoria, depositata il 2 marzo 1967, la stessa difesa, dopo avere fatto osservare che non potrebbe rientrare nella competenza della Corte giudicare della legittimità della brevità o meno di un termine legale e che, in ogni caso, quello stabilito dalla norma in contestazione non può ritenersi breve, sostiene che l'apposizione del medesimo non può non rientrare nel concetto generale di limite previsto dall'art. 30, ultimo comma, comprensivo di tutte le modalità che il legislatore ritenga di prescrivere per l'esercizio dell'azione (come la Corte ha riconosciuto con la sentenza n. 70 del 1965, relativa al giudizio di delibazione delle domande rivolte alla ricerca di cui all'articolo stesso). Passando poi ad esaminare la tesi, secondo cui il diritto dell'attrice all'accertamento della paternità sarebbe sorto per effetto della sentenza n. 7 di questa Corte, fa osservare che nulla impediva ad essa di promuovere quella stessa azione che ha condotto alla pronuncia di illegittimità costituzionale dell'art. 123, dato che a tutti é consentito sollevare, nella sede competente, la questione dell'invalidità di una norma lesiva dei propri interessi; mentre la sentenza abrogativa emessa dalla Corte costituzionale non può fornire un titolo per legittimare la proposizione di un'azione già in precedenza estinta. Infine contesta, sulla base dell'interpretazione dello stesso art. 30, l'esattezza della tesi avversaria circa l'asserita imprescrittibilità dell'azione di reclamo dello status di figlio naturale, e dell'altra relativa alle finalità, diverse da quelle della tutela della famiglia legittima, cui l'art. 271 sarebbe rivolto, e ribadisce le conclusioni già prese.

 

Considerato in diritto

 

Le due cause riguardano questioni sostanzialmente eguali, anche se prospettate in termini parzialmente diversi, e pertanto si rende opportuno procedere alla loro riunione per deciderle con unica sentenza.

1. - L'ordinanza del Tribunale di Roma, pur prendendo atto, al fine del giudizio sulla rilevanza, del motivo addotto dall'attrice per giustificare il promuovimento dell'azione oltre il termine stabilito dall'art. 271 del Codice civile (fatto consistere nell'impedimento ad esso opposto dalla presenza dell'art. 123 delle disposizioni di attuazione del Codice stesso, la cui illegittimità é stata dichiarata con la sentenza di questa Corte n. 7 del 1963), ha tuttavia ritenuto che la questione dell'illegittimità costituzionale dell'art. 271 predetto fosse prospettabile sotto l'aspetto del contrasto fra la brevità del termine dal medesimo stabilito per la proposizione dell'azione di riconoscimento della paternità naturale e le esigenze di tutela dei nati fuori del matrimonio voluta assicurare dall'art. 30, ultimo comma, della Costituzione.

La questione, così formulata, non può ritenersi fondata. Infatti, se non é contestabile che la disposizione costituzionale invocata ha inteso innovare alla precedente normazione in materia, nel senso di meglio assicurare la tutela giuridica e sociale dei figli nati fuori del matrimonio, e correlativamente di estendere i casi di ricerca della paternità (la quale é da considerare forma fondamentale per l'attuazione di tale tutela, secondo quanto questa Corte ha statuito con la sentenza n. 70 del 1965), é altresì non dubbio l'intento che anima la norma medesima di arrestare la protezione disposta della prole naturale al punto in cui essa si palesi incompatibile con i diritti della famiglia legittima. Ora l'apposizione di un termine entro cui sia da esperire l'azione di riconoscimento non può ritenersi sottratto al potere conferito al legislatore dallo stesso ultimo comma dell'articolo citato di determinare i limiti entro cui contenere la ricerca della paternità. Infatti, mentre sembra ovvio che nel generico concetto di "limite" debba farsi rientrare ogni specie di circostanze relative all'esercizio dell'azione medesima, e quindi anche l'apposizione di un termine, non può contestarsi che quest'ultima corrisponda all'esigenza di salvaguardare, oltre che gli interessi della famiglia legittima, anche quelli della persona verso cui la ricerca si rivolge (secondo quanto é stato ritenuto dalla citata sentenza n. 70); interessi che poi coincidono con gli altri più generali della certezza del diritto, indubbiamente compromessi dal consentire l'esperibilità dell'azione a tempo indeterminato.

Nessun pregio ha l'argomento che in contrario si vorrebbe desumere dall'imprescrittibilità di altre azioni di stato (come quella relativa alla ricerca della maternità) poiché, non sussistendo un principio costituzionale al quale possa venire ricondotta l'imprescrittibilità stessa, deve ritenersi rilasciato alla discrezionalità del legislatore lo stabilirla in alcuni casi (come, per es., oltre che per l'ipotesi prima ricordata, per le azioni del figlio naturale consentite, ai sensi dell'art. 279 del Codice civile, allo scopo di ottenere la corresponsione degli alimenti a carico del genitore), e non già in altri, come quello in specie, destinato al conseguimento di effetti più estesi e penetranti.

Né meglio fondata appare l'eccezione quando la si consideri sotto l'aspetto, posto in rilievo dall'ordinanza, della brevità del termine stabilito dall'art. 271. La questione così prospettata potrebbe ottenere adito in un giudizio di legittimità costituzionale solo in quanto risulti che il termine venga determinato in tal modo da riuscire irrazionale, rendendo solo apparente la possibilità di esercizio del diritto, secondo la Corte ha avuto occasione di statuire, fra le altre, con le sentenze n. 93 del 1962 e nn. 107 e 118 del 1963. É però da escludere che incongruo possa considerarsi il termine in esame, perché il periodo di due anni da essa stabilito non rende estremamente disagevole, né tanto meno impossibile l'esperimento dell'azione.

2. - Diversa é l'impostazione che l'ordinanza del Tribunale di Torino dà alla questione sollevata, perché con essa non si contesta l'apponibilità di un termine all'azione in esame, ma si afferma invece che, ove si mantenesse fermo quello stabilito dall'art. 271, pur dopo l'avvenuta invalidazione dell'art. 123 delle disposizioni di attuazione del Codice civile, per effetto della citata sentenza n. 7 del 1963, si verrebbe ad introdurre un'ingiustificata discriminazione fra i nati prima del 1 luglio 1939 (per i quali la eliminazione della norma impeditiva dell'azione rimarrebbe priva di ogni effetto) e quelli nati successivamente, che invece ne potrebbero beneficiare, con conseguente violazione del principio di eguaglianza, oltre che di quello dell'art. 30, posto a tutela della filiazione naturale.

Anche tali censure devono ritenersi infondate. L'ostacolo, presentato dall'art. 123 delle disposizioni di attuazione, all'esperimento dell'azione per la dichiarazione giudiziale di paternità in tutti i casi consentiti dall'art. 269 del nuovo Codice civile, da parte dei figli nati prima del 1 luglio 1939, é venuto a cessare per effetto dei nuovi principi introdotti dalla Costituzione repubblicana che hanno limitato i poteri del legislatore, nel senso di conferire una maggiore protezione alla prole illegittima, nonché di escludere ogni discriminazione nel godimento della medesima che potesse apparire arbitraria. Pertanto dal giorno dell'entrata in vigore della Costituzione medesima rimaneva aperto a tutti coloro che da tali discriminazioni si fossero ritenuti colpiti il potere di promuovere l'azione per il riconoscimento del diritto vantato. Non può ritenersi che si produca (come ritiene l'ordinanza) una ingiustificata diversità di trattamento fra i nati prima del 1 luglio 1939 e quelli nati successivamente, poiché anche ai primi (salvo che non si fosse verificata nei loro riguardi la decadenza dal diritto per decorso dei termini di cui all'art. 271 del Codice civile prima dell'entrata in vigore della Costituzione) rimaneva consentito di richiedere il riconoscimento giudiziale della paternità entro i termini predetti, o eventualmente nei due anni decorrenti dal 1 gennaio 1948.

Il far discendere dall'inerzia di coloro, che avrebbero potuto sperimentare l'azione a tutela del diritto venuto a costituirsi in loro favore, un effetto estintivo del medesimo, come non può, sulla base delle considerazioni svolte in precedenza, ritenersi contrastante con l'art. 30 della Costituzione, così non trova ostacolo nell'art. 3, apparendo chiaro che il principio di eguaglianza non é violato quando la legge dispone trattamenti diversi in confronto a soggetti diversamente solleciti nella tutela delle proprie pretese, ed anzi violato sarebbe se, al contrario, si adottasse una disciplina uniforme nei due casi.

Tanto meno la violazione denunciata può riscontrarsi, come ritiene l'ordinanza, nella distinzione risultante dal secondo comma dell'art. 271 fra i casi dei numeri 1 e 4 dell'art. 269 e quello del n. 2, essendo ovvio che il termine dei due anni non avrebbe potuto (senza violazione del citato art. 2935 del Codice civile) farsi decorrere dal raggiungimento della maggiore età allorché il titolo costitutivo del diritto a richiedere la dichiarazione giudiziale di paternità si sia formato dopo il compimento di quell'età.

3. - Nessuna incidenza sulla situazione giuridica derivante dai principi che si sono richiamati può attribuirsi alla citata sentenza n. 7 del 1963, essendosi questa limitata a dichiarare la illegittimità costituzionale dell'art. 123, primo e secondo comma, nella considerazione della irragionevolezza imputabile alla discriminazione da esso effettuata, in via transitoria, fra i nati in epoca anteriore e quelli nati dopo il 1 luglio 1939, ma non ha nulla statuito in ordine alla decorrenza del termine di decadenza dell'azione da parte dei primi. Tale questione (estranea alla fattispecie allora in discussione) dev'essere decisa secondo i criteri che la Corte ha avuto ripetutamente occasione di enunciare. Più recentemente, con la sentenza n. 127 del 1966, ha statuito che gli effetti delle proprie pronunce di accoglimento, quali si deducono dalla disciplina costituzionale della materia (risultante dall'art. 136, primo comma, della Costituzione, in relazione all'art. 1 della legge costituzionale n. 1 del 1948 ed all'art. 30 della legge di attuazione n. 87 del 1953) non sono paragonabili a quelli del jus superveniens, poiché discendono dalla dichiarazione di una invalidità che inficia fin dall'origine (o fin dalla emanazione della Costituzione per leggi a questa anteriori) la disposizione impugnata. Pertanto le pronunce stesse fanno sorgere l'obbligo per i giudici avanti ai quali si invocano le norme di legge dichiarate costituzionalmente illegittime di non applicarle, a meno che i rapporti cui esse si riferiscono debbano ritenersi ormai esauriti in modo definitivo ed irrevocabile, e conseguentemente non più suscettibili di alcuna azione o rimedio, secondo i principi invocabili in materia.

L'applicazione in concreto di tali principi compete al giudice del merito, che dovrà effettuarla con riguardo alla natura ed entità del vizio accertato nella legge, nonché alla particolarità delle circostanze della controversia a lui sottoposta.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

disposta la riunione dei due giudizi,

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale, proposte dal Tribunale di Roma con ordinanza 8 novembre 1965 e dal Tribunale di Torino con ordinanza 28 maggio 1965, dell'art. 271 del Codice civile, in riferimento agli artt. 3 e 30 della Costituzione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 27 aprile 1967.

 

Gaspare AMBROSINI - Antonino PAPALDO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI 

 

 

Depositata in cancelleria: 5 maggio 1967.