Sentenza n. 38 del 1965
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SENTENZA N. 38

ANNO 1965

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. GASPARE AMBROSINI, Presidente

Prof. GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO

Prof. ANTONINO PAPALDO

Prof. NICOLA JAEGER

Prof. GIOVANNI CASSANDRO

Prof. BIAGIO PETROCELLI

Prof. ALDO SANDULLI

Prof. GIUSEPPE BRANCA

Prof. MICHELE FRAGALI

Prof. COSTANTINO MORTATI

Prof. GIUSEPPE CHIARELLI

Dott. GIUSEPPE VERZÌ

Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI

Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge 27 dicembre 1953, n. 959, contenente norme modificative del testo unico delle leggi sulle acque e sugli impianti elettrici, riguardanti l'economia montana, e dell'art. 1 della legge 30 dicembre 1959, n. 1254, recante norme interpretative della legge predetta, promossi con due ordinanze emesse il 23 novembre 1963 dal Tribunale superiore delle acque pubbliche, nei procedimenti civili vertenti tra la Società meridionale di elettricità e l'Ente nazionale per l'energia elettrica contro il Ministero dei lavori pubblici, iscritte ai un. 47 e 48 del Registro ordinanze 1964 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 108 del 2 maggio 1964.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri e di costituzione in giudizio del Ministro dei lavori pubblici;

udita nell'udienza pubblica del 16 dicembre 1964 la relazione del Giudice Antonino Papaldo;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Giovanni Albisinni, per il Presidente del Consiglio dei Ministri e per il Ministro dei lavori pubblici.

 

Ritenuto in fatto

 

Con due ordinanze, di identico contenuto, emesse il 23 novembre 1963 dal Tribunale superiore delle acque pubbliche, nei procedimenti civili vertenti tra la Società meridionale di elettricità e l'Ente nazionale per l'energia elettrica contro il Ministero dei lavori pubblici, in sede di appello avverso sentenze del Tribunale regionale di Napoli, é stata sollevata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge 27 dicembre 1953, n. 959, contenente norme modificative del testo unico delle leggi sulle acque e sugli impianti elettrici, riguardanti l'economia montana, e dell'art. 1 della legge 30 dicembre 1959, n. 1254, recante norme interpretative della legge predetta, in riferimento agli artt. 3 e 41 della Costituzione.

Davanti al Tribunale superiore gli appellanti invocavano l'art. 3 della legge 11 luglio 1913, n. 985, sulla cui base la facoltà di utilizzare le acque del fiume Neto e suoi affluenti a scopo di forza motrice per produzione di energia elettrica era stata concessa gratuitamente per la durata di anni 60 a decorrere dal 31 dicembre 1916. Sostenevano che le leggi sopra ricordate del 1953 e del 1959, le quali hanno imposto un sovracanone, sarebbero illegittime, perché, dovendosi riconoscere al sovracanone la natura di entrata demaniale ed alla legge del 1913 la natura di legge di incentivazione, le leggi predette avrebbero violato la Costituzione negli artt. 3, 23, 25, 41 e 53.

Il Tribunale superiore, dopo avere premesso che le questioni sollevate erano rilevanti ai fini del giudizio, riteneva non manifestamente infondata la questione rispetto agli artt. 3 e 41.

Nelle ordinanze si premette che le leggi di incentivazione sarebbero quelle emanate nel fine specifico di ottenere che il privato, spontaneamente, compia una determinata attività, ritenuta utile per la collettività; attività che in mancanza della legge non sarebbe compiuta o lo sarebbe in misura o con modalità diverse. Il contenuto di tali leggi consisterebbe nella concessione di vantaggi che si realizzeranno in concreto solo se ed in quanto il destinatario compia l'attività considerata dalla legge stessa. Riconosciuto che la legge del 1913 abbia le caratteristiche di una legge di incentivazione, le ordinanze affermano che le leggi di questo genere sono state previste nell'art. 41 della Costituzione, il quale, dopo avere enunciato il principio della libertà di iniziativa economica privata, affida alla legge la determinazione dei programmi e dei controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.

Posto il problema di stabilire se le leggi di incentivazione godano di una particolare tutela costituzionale, se, cioè, la presenza di una legge di incentivazione importi un limite alla libertà del legislatore nella disciplina della materia rientrante nelle previsioni di quella legge, le ordinanze osservano che gli effetti della legge di incentivazione, per la natura stessa di questa, sono destinati a proiettarsi nel tempo per tutto il periodo in cui deve svolgersi quell'attività economica che il legislatore ha ritenuto di dover potenziare ed incoraggiare, non tanto per impedire al legislatore di disporre l'abrogazione di una legge di incentivazione non più rispondente alle proprie finalità di fronte a mutate condizioni economiche o sociali, quanto per impedire che una nuova legge faccia venir meno i vantaggi e le agevolazioni concesse con la legge di incentivazione prima che si esaurisca l'attività del privato posta in essere sotto la spinta di questa legge. Essa, siccome legge di direttiva economica giusta le previsioni dell'art. 41 della Costituzione, ha insito un carattere di impegnatività sì da non essere suscettibile di modificazioni fino a che non sia stato realizzato il programma avuto di mira dalla legge stessa; di modo che le attività promosse dalla legge di incentivazione sfuggono all'imposizione di quei limiti, vincoli ed obblighi con i quali lo Stato esercita la sua funzione di indirizzo della iniziativa privata.

Un altro aspetto sotto il quale é stata prospettata nelle ordinanze la violazione dell'art. 41 é quello secondo cui deve escludersi la legittimità di norme che siano congegnate in modo da interferire nell'attività economica di singoli operatori, turbando e comprimendo la libertà di iniziativa privata al solo fine di tutelare interessi di natura economica di altri soggetti: in questo caso gli interessi economici dei Comuni montani.

Quanto al contrasto con l'art. 3 della Costituzione, le ordinanze, richiamando le massime affermate da questa Corte circa il principio di eguaglianza, prospettano la violazione di tale principio: sarebbero stati trattati in modo diverso i concessionari dei bacini di pianura e quelli dei bacini montani, che invece dovevano essere considerati in condizioni di parità; la misura del sovracanone non sarebbe commisurata alla capacità contributiva del concessionario, né all'importanza della concessione, né alle esigenze dei Comuni montani.

Concludendo, le ordinanze osservano che il dubbio sulla legittimità costituzionale della imposizione dei sovracanoni si profila tanto in via generica per le ragioni che investono in radice il sistema adottato dal legislatore quanto in via specifica per i soli concessionari che godono della gratuità della concessione o perché hanno operato in base ad una legge di incentivazione o perché comunque si sono trovati in una condizione che é stata ritenuta legittimante quel trattamento.

Le ordinanze, segnate ai numeri 47 e 48 del Registro ordinanze 1964, notificate al Presidente del Consiglio dei Ministri, all'E.N.E.L. - già Impresa Società meridionale di elettricità - e al Ministro dei lavori pubblici il 25 febbraio 1964, comunicate ai Presidenti dei due rami del Parlamento, sono state pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica il 2 maggio 1964, n. 108.

In questa sede é intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri e si é costituito il Ministro dei lavori pubblici, rappresentati e difesi dall'Avvocatura generale dello Stato, la quale ha depositato l'atto di intervento e le deduzioni, sostanzialmente di identico contenuto per entrambe le controversie, nella stessa data del 22 maggio 1964. Le altre parti non si sono costituite.

L'Avvocatura, esaminando prima la questione particolare, e cioé quella che si riferisce alla dedotta tutela costituzionale delle cosiddette leggi di incentivazione, si duole che il Tribunale superiore abbia omesso di esaminare se effettivamente con le leggi denunziate fossero state abrogate le agevolazioni concesse con la legge 11 luglio 1913.

L'Avvocatura sostiene che la gratuità concessa da detta legge, in relazione all'art. 88, primo comma, della legge 25 giugno 1906, n. 255, riguardasse esclusivamente l'esenzione dal pagamento del canone demaniale vero e proprio, di quel corrispettivo, cioè, dovuto allo Stato per l'uso dell'acqua pubblica, ma non potesse riguardare eventuali oneri, allora inesistenti, che per l'uso dell'acqua pubblica sarebbero stati posti a favore di enti diversi dallo Stato, con carattere di tributo, di contribuzione o, in genere, di prestazione patrimoniale, ma senza il carattere del canone demaniale. A conforto di questa opinione, l'Avvocatura richiama l'art. 48 del D.L.L. 9 ottobre 1919, n. 2161, ora articolo 73 del testo unico 11 dicembre 1933, n. 1775, sulla cui base può essere concesso l'esonero parziale o totale del canone per la derivazione, salva però sempre la quota devoluta agli enti locali. L'art. 73, anche se non si voglia ritenere che costituisca norma di carattere generale, comprendente le precedenti norme a carattere particolare, costituirebbe elemento non trascurabile ai fini della corretta interpretazione dell'art. 3 della legge del 1913.

E poiché il sovracanone non é elemento del canone demaniale perché questo solo costituisce il corrispettivo dell'uso dell'acqua e di questo solo é possibile, allo stato della legislazione, l'esonero, il sovracanone - conclude l'Avvocatura - costituisce un onere del tutto nuovo e diverso, che non poteva comprendersi fra quelli dei quali la legge del 1913 accordava l'esenzione. Per il che non esisterebbe il problema dell'abrogazione, da parte della legge del 1953, della legge del 1913 e pertanto la dedotta questione di legittimità non avrebbe ragione di essere posta.

Ma anche nell'ipotesi che la legge del 1953 abbia abrogato con efficacia retroattiva quella del 1913, ciò non avrebbe alcun rilievo di ordine costituzionale, giacché non é prevista una tutela costituzionale delle cosiddette leggi di incentivazione.

Dichiarando di prescindere dall'esame dell'esattezza della determinazione di una autonoma categoria di leggi in relazione ad un carattere che attiene più alla incidenza economica della norma che non alla giustificazione giuridica di essa, l'Avvocatura osserva che le posizioni soggettive garantite dalla legge di incentivazione restano inquadrate nell'ambito della realizzazione delle finalità di ordine generale perseguite attraverso quella legge, finalità che non cessano di essere soggette all'apprezzamento del legislatore, il quale può diversamente valutare la situazione in relazione a nuove e diverse esigenze da soddisfare, trovando limite in principi fondamentali costituzionalmente garantiti, tra i quali non può farsi rientrare il principio della irretroattività della legge. Il legislatore, nell'esercizio del suo potere sovrano di valutazione delle situazioni in atto, ben può dettare nuove discipline. Una contraria opinione sarebbe in contrasto con il principio secondo il quale le limitazioni all'esercizio del potere legislativo devono trovare il loro fondamento in principi chiaramente espressi nella Carta costituzionale.

Quanto agli altri aspetti sotto i quali é stata dedotta la violazione dell'art. 41, l'Avvocatura sostiene che l'imposizione dei sovracanoni ha una fonte costituzionale di legittimazione nell'art. 44 della Costituzione, l'ultimo comma del quale recita che la legge dispone provvedimenti a favore delle zone montane.

La prestazione, legittimamente imposta con legge, é stabilita in base ad un preciso legame tra i soggetti passivi (concessionari) ed i soggetti attivi (Comuni montani), legame rappresentato dal bacino imbrifero montano.

A ciò si aggiunga: a) la maggiore utilità economica dell'impianto idroelettrico di montagna specie se con serbatoio; b) il principio, posto anche a fondamento di altre disposizioni gia regolanti la materia, secondo cui almeno una parte della utilità ritraibile nel luogo in cui viene prodotta debba essere lasciata sul posto, specie se trattasi di zone montane, notoriamente non ricche; c) il riferimento ad una presunzione di danno sia diretto che indiretto alle zone montane per l'uso di un bene, che, pur essendo demaniale, nasce ed acquista consistenza in tali zone, alle quali ne é tolta la disponibilità; ed infine il riferimento ad un principio di restituzione per il fatto che tale bene, utilizzato nelle zone montane, si trasforma in ricchezza nella zona di pianura, sicché non urta contro alcun principio che l'utilizzazione di esso sia gravata di un onere a favore delle zone da cui proviene.

L'Avvocatura nega che sussista violazione del principio di eguaglianza in relazione alla pretesa tutela delle leggi di incentivazione. Sostiene essere infondata la argomentazione secondo cui, avendo il legislatore previsto come gratuite certe concessioni e come non gratuite certe altre, per ciò stesso avrebbe posto una differenziazione poi non più rispettata. La imposizione di un sovracanone pacificamente definito nell'ambito della categoria delle entrate patrimoniali - non altererebbe il regime gratuito della concessione, o quanto meno lo renderebbe sempre differenziato rispetto alle concessioni soggette al regime ordinario, cioè al pagamento del canone demaniale.

Passando ad esaminare la questione di legittimità costituzionale rispetto alla legge impositiva del sovracanone, indipendentemente dalle leggi di incentivazione, l'Avvocatura, dopo aver rilevato che tale questione é stata sollevata solo con riferimento all'art. 3 della Costituzione, rinvia alle osservazioni già esposte in relazione all'art. 41, per il caso in cui si ritenesse che la questione sotto il profilo generale sia stata sollevata anche con riferimento a questa norma.

Quanto alla dedotta violazione del principio di eguaglianza, l'Avvocatura ripete le considerazioni già fatte nei riguardi della stessa questione esaminata rispetto alle leggi di incentivazione, nel senso che il legislatore, dopo avere valutato discrezionalmente ma non arbitrariamente i vari elementi, é pervenuto alla conclusione di una disuguaglianza di situazioni tra i concessionari di montagna e quelli di pianura.

Infine, l'Avvocatura nega pregio al secondo aspetto della questione, con il quale si assume che la misura del sovracanone non é ragguagliata né alla capacità contributiva del concessionario né alla importanza della concessione né alle esigenze dei Comuni montani.

Rileva che il sovracanone é imposto nella misura di lire 1.300 per ogni kw di potenza nominale media ed é per ciò stesso commisurato alla capacità contributiva del concessionario ed alla importanza della concessione, provvedendo, nei limiti del possibile, alle esigenze dei Comuni montani.

Conclude per l'infondatezza delle questioni.

 

Considerato in diritto

 

1. - Sulle due ordinanze, di identico contenuto, può essere emessa un'unica decisione.

2. - L'Avvocatura dello Stato ha rilevato preliminarmente che il Tribunale superiore ha omesso di esaminare se con la legge 27 dicembre 1953, n. 959, interpretata autenticamente dalla legge 30 dicembre 1959, n. 1254, fossero state abrogate le agevolazioni concesse con la legge 11 luglio 1913, n. 985: se avesse escluso la detta abrogazione, quel giudice non avrebbe avuto ragione di porre la questione di carattere generale circa la tutela costituzionale garantita alle cosiddette leggi di incentivazione.

La Corte osserva che il Tribunale superiore ha impostato la questione sul presupposto che le disposizioni denunziate non hanno avuto l'effetto di abrogare la legge del 1913, rispetto alla quale, ancora vigente, le disposizioni predette hanno determinato un contrasto ai fini della legittimità costituzionale, non una incompatibilità agli effetti dell'abrogazione. Tale impostazione attiene sostanzialmente al giudizio di rilevanza perché costituisce la base del procedimento logico attraverso cui il giudice a quo ha formulato la questione di legittimità costituzionale. E la Corte, nella cui competenza non rientra il giudicare sopra questioni di abrogazione delle leggi, ritiene che il giudizio sulla costituzionalità delle norme denunziate debba essere fondato sulla base adottata dal Tribunale superiore.

3. - Le suindicate disposizioni della legge 30 dicembre 1959 e della legge 27 dicembre 1953 violerebbero gli artt. 3 e 41 della Costituzione tanto se tali disposizioni si riferiscano a concessioni nei riguardi delle quali esistevano condizioni di favore in dipendenza delle leggi cosiddette di incentivazione, del cui asserito carattere si dirà in seguito, quanto se si riferiscano a concessioni per le quali quelle condizioni non esistevano.

Nel vagliare le questioni, le due ipotesi saranno tenute distinte, dando la precedenza all'esame relativo alla ipotesi in cui non esistano leggi di incentivazione. Tale questione riveste carattere generale, giacché la sua soluzione, se fosse nel senso dell'illegittimità, sarebbe assorbente rispetto alla questione riflettente l'ipotesi della esistenza di leggi di incentivazione.

In riferimento ad entrambe le ipotesi, la Corte ritiene che non sia influente ai fini del decidere l'accertamento del carattere del sovracanone. Il denunziato contrasto delle norme in esame con gli artt. 3 e 41 della Costituzione, secondo i profili sotto i quali la denunzia é stata formulata, può essere giudicato esistente o non in base a criteri che valgono indipendentemente dalla determinazione della natura della prestazione pecuniaria imposta dalle norme predette.

4. - Per quanto si riferisce alla violazione dell'art. 3 della Costituzione rispetto alle ipotesi in cui non esistano leggi di incentivazione, le ordinanze deducono che la disparità di trattamento tra i concessionari dei bacini di pianura e quelli dei bacini montani sarebbe illegittima perché fondata sul presupposto che essi si trovino in condizioni obbiettive diverse, mentre la condizione dei due gruppi di concessionari rispetto ai Comuni montani sarebbe identica. La violazione del principio di eguaglianza sussisterebbe anche perché la misura del sovracanone fissata dalla legge non sarebbe commisurata alla capacità contributiva del concessionario, né all'importanza della concessione, né alle esigenze dei Comuni montani, che ne sono i beneficiari.

Queste censure sono infondate.

Il legislatore ha ritenuto di dovere approntare un corpo di norme a favore dei territori montani, ispirandosi ad uno scopo di pubblico generale interesse in armonia con una norma della Costituzione, contenuta nell'art. 44, secondo comma. In questo sistema si inseriscono le norme in esame.

Mentre non sono sindacabili, sotto l'aspetto della violazione del principio di eguaglianza, i criteri in base ai quali la misura del sovracanone é stata stabilita ed i criteri in base ai quali il provento deve essere impiegato, non appare criticabile l'imposizione di una particolare prestazione pecuniaria ai concessionari dei bacini montani, commisurata alla stregua di criteri generali ed obbiettivi, non riscontrandosi alcun eccesso nell'esercizio del potere discrezionale del legislatore, il quale ha ragionevolmente posto a carico dei concessionari dei bacini montani un concorso per l'approntamento degli aiuti da portare alle popolazioni di quei territori dalle cui risorse i concessionari traggono beneficio.

Le stesse considerazioni valgono per giudicare infondata la censura di violazione del principio di eguaglianza nell'ipotesi di esistenza di una legge di incentivazione.

É innegabile che, con le disposizioni denunziate, il legislatore ha creato una disparità di trattamento tra concessionari che godevano ugualmente della esenzione del canone, imponendo un nuovo obbligo ai soli concessionari dei bacini montani. Ma tale disparità non appare illegittima, essendo immune da irragionevolezza la norma che l'ha determinata; e ciò per i motivi già esposti.

5. - Le disposizioni denunziate violerebbero il principio di libertà di iniziativa economica privata, in quanto imporrebbero una illegittima compressione di tale iniziativa al solo scopo di tutelare interessi di natura economica di altri soggetti, e cioè dei Comuni montani.

Questa censura, riferendosi ad entrambe le ipotesi, ha carattere più generale e deve quindi essere esaminata per prima.

La Corte non ha ragione di modificare il principio enunciato con la sentenza del 30 dicembre 1958, n. 78, alla quale nelle ordinanze si fa riferimento.

Qui non si tratta di disposizioni adottate a favore di una categoria economica a carico di un'altra categoria. La prestazione imposta é a favore di enti pubblici di importanza fondamentale, quali sono i Comuni, per raggiungere scopi di carattere generale.

Non é possibile, quindi, parlare di illegittime distorsioni che verrebbero a determinarsi nel campo della libertà economica.

6. - Prima di passare all'altro aspetto della questione relativa al contrasto col principio di libertà di iniziativa economica, prospettata in riferimento ai casi in cui i concessionari traggano benefici da leggi di incentivazione, occorre delimitare il campo dell'indagine.

Giova notare, anzitutto, che la questione proposta non si riferisce ad un preteso obbligo del legislatore di fare onore agli affidamenti dati con la concessione di esenzioni o di altri benefici, nel senso che il legislatore stesso non potrebbe revocare tali benefici se non per apprezzabili ragioni. La questione qui prospettata ha un ambito ben più ristretto: si riferisce ad una asserita tutela costituzionale nei riguardi degli impegni assunti con leggi cosiddette di incentivazione.

Per quanto sia superfluo, la Corte deve, in secondo luogo, precisare che la questione non può essere esaminata in riferimento ad una categoria indeterminata di leggi, rispondenti ad un tipo astratto, quello di leggi di incentivazione. E ovvio, invece, che la questione debba essere esaminata e risolta in confronto di una determinata legge, qualificata come legge di incentivazione: nel caso attuale la legge 11 luglio 1913, n. 985.

Secondo le ordinanze, é legge di incentivazione quella dettata al fine specifico di ottenere che il privato, in vista di vantaggi che si realizzeranno in concreto solo se ed in quanto egli compia l'attività prevista dalla legge, realizzi un determinato compito ritenuto utile per la collettività, realizzazione che in mancanza della legge non si sarebbe avuta o si sarebbe avuta in misura o con modalità diverse. Sempre secondo le ordinanze, simili leggi sarebbero state previste dal legislatore costituente nell'art. 41 della Costituzione là dove si affida alla legge la determinazione dei programmi e dei controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali. Le leggi di questo tipo godrebbero di una particolare tutela costituzionale, giacché esse, siccome leggi di direttiva economica giusta le previsioni dell'art. 41, avrebbero insito un carattere di imperatività sì da non essere suscettibili di modificazioni fino a che non sia stato realizzato il programma avuto di mira dalle leggi stesse.

E pertanto le attività promosse dalla legge di incentivazione sfuggirebbero all'imposizione di quei limiti, vincoli ed obblighi con cui lo Stato esercita, in conformità al medesimo art. 41, la sua funzione di indirizzo della iniziativa privata.

La legge 11 luglio 1913, n. 985, avrebbe il carattere di legge di incentivazione giacché il legislatore volle assicurare ai costruttori di alcuni impianti adeguati vantaggi, rappresentati, fra l'altro, dalla gratuità della concessione come necessaria contropartita del rischio e dell'onerosità dell'impresa. Onde l'illegittimità della norma che ha imposto il sovracanone.

Ma, pur non apparendo necessario, ai fini della presente controversia, prendere posizione in ordine alla categoria delle leggi di incentivazione, ancora non compiutamente elaborata, e a parte la difficoltà di applicare ad una legge, vecchia di mezzo secolo, concetti che nemmeno oggi sono definitivi, la Corte non ritiene di riscontrare nella norma impugnata la denunciata violazione dell'art. 41.

Quella legge, preordinata alla realizzazione di determinate opere di pubblico interesse, accordò, in vista di tale interesse, ai privati che erano chiamati a realizzarle ai fini di una concessione amministrativa, taluni particolari benefici. Ciò non importa però che, a lunga distanza di tempo e in una situazione storica ed economica del Paese notevolmente cambiata, il legislatore non possa, senza urtare contro i precetti costituzionali in materia di programmazione economica, introdurre un nuovo onere a carico dei privati che realizzarono quelle opere e sono tuttora titolari della concessione.

L'imposizione del sovracanone non significa revoca della gratuità del canone, gratuità che é rimasta inalterata. Il sovracanone, quale che sia la sua natura, costituisce un nuovo e diverso onere a favore di enti distinti dallo Stato (i Comuni montani), onere a cui sono stati assoggettati, con legge generale, tutti i concessionari che si trovavano in una determinata posizione, al fine di far fronte a sopraggiunte esigenze di pubblico interesse, il cui soddisfacimento rispondeva anche all'orientamento segnato da una norma costituzionale (art. 44, secondo comma).

In armonia con il sistema generale che aveva trovato la sua definitiva formulazione nell'art. 52 del testo unico sulle acque, la legge ha conferito ai Comuni montani un diritto nei confronti di tutti coloro che, qualunque fosse la loro situazione rispetto allo Stato, ritraevano una utilità dalla montagna, trasformandola in ricchezza nelle zone di pianura, senza che alle popolazioni della montagna ne risultasse un apprezzabile beneficio. Non é, pertanto, illegittimo che il legislatore abbia accordato qualche compenso a favore di quelle popolazioni e che, a tal fine, non abbia fatto discriminazioni fra i concessionari.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

riunisce le due cause indicate in epigrafe;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 della legge 27 dicembre 1953, n. 959, e 1 della legge 30 dicembre 1959, n. 1254, in riferimento agli artt. 3 e 41 della Costituzione.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 maggio 1965.

Gaspare AMBROSINI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Antonino PAPALDO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI – Giuseppe VERZì - Giovanni Battista BENEDETTI -  Francesco Paolo BONIFACIO.

 

Depositata in Cancelleria il 31 maggio 1965.