Sentenza n. 68 del 1963

 CONSULTA ONLINE 

 

SENTENZA N. 68

 

ANNO 1963

 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

 

composta dai signori Giudici:

 

Prof. Gaspare AMBROSINI, Presidente

 

Prof. Giuseppe CASTELLI AVOLIO

 

Prof. Antonino PAPALDO

 

Prof. Giovanni CASSANDRO

 

Prof. Biagio PETROCELLI

 

Prof. Aldo SANDULLI

 

Prof. Giuseppe BRANCA

 

Prof. Michele FRAGALI

 

Prof. Costantino MORTATI

 

Prof. Giuseppe CHIARELLI

 

Dott. Giuseppe VERZÌ

 

ha pronunciato la seguente

 

 

 

SENTENZA

 

 

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 16 della legge regionale siciliana 4 aprile 1956, n. 23, promosso con ordinanza emessa il 31 agosto 1961 dal Pretore di Calatafimi nel procedimento penale a carico di Rizzo Francesco e Vincenzo, iscritta al n. 1 del Registro ordinanze 1962 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 31 del 3 febbraio 1962 e nella Gazzetta Ufficiale della Regione siciliana n. 7 del 10 febbraio 1962.

 

Visto l'atto di intervento del Presidente della Regione siciliana;

 

udita nell'udienza pubblica del 20 marzo 1963 la relazione del Giudice Costantino Mortati;

 

udito l'avv. Aldo Dedin, per il Presidente della Regione siciliana.

 

 

 

Ritenuto in fatto

 

 

 

Con ordinanza del 31 agosto 1961 il Pretore di Calatafimi, nel corso di un procedimento penale a carico dei fratelli Rizzo Francesco e Vincenzo, imputati di infrazione alla legislazione mineraria, ha sollevato d'ufficio questione di legittimità costituzionale dell'art. 16 della legge regionale siciliana 4 aprile 1956, n. 23, in relazione all'art. 25 della Costituzione, avendo ritenuto che la questione stessa, rilevante per la decisione della causa, non può ritenersi manifestamente infondata, nella considerazione che la sanzione comminata per l'infrazione contestata agli imputati non riveste carattere di pena amministrativa, sia per la qualifica di ammenda che il predetto articolo le attribuisce, sia per l'analogia con quella prevista dalla legge statale in materia di polizia mineraria, sia ancora per la genericità della previsione che essa fa dell'oblazione, e che quindi non poteva essere disposta dalla Regione. Che comunque, anche a volere ritenere diversamente, resterebbe sempre dubbia la legittimità costituzionale della sostituzione di una norma penale statale con altra regionale non penale.

 

L'ordinanza, debitamente notificata e comunicata, é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 3 febbraio 1962, n. 31.

 

Innanzi alla Corte si é costituito solo il Presidente della Regione siciliana, rappresentato e difeso dagli avvocati Aldo Dedin e Enrico Restivo, depositando le proprie deduzioni in cancelleria il 21 febbraio 1962. Si afferma nelle deduzioni che la sanzione comminata dalla legge impugnata ha senza dubbio carattere amministrativo, secondo risulta dalla distinzione che la legge stessa all'art. 15 fa fra l'ipotesi di infrazione più grave, per cui rinvia all'azione penale prevista dall'art. 650 del Codice penale, e quella più lieve dell'art. 16, per la quale dispone l'ammenda. Ciò sarebbe confermato dal fatto che l'ammontare stabilito per quest'ultima in lire 500.000 é superiore a quella tipica dell'ammenda, qual'é prevista dal Codice penale. Si aggiunge che se pure la sanzione de qua rivestisse indole penale, non sussisterebbe illegittimità, dato che la norma regionale nel disporla non ha fatto altro che riprodurre quella dell'art. 17 della legge 30 marzo 1893, n. 184, sulla polizia mineraria, che prevede sanzioni pecuniarie fino a lire 1.000, cioè per un ammontare che risulta equivalente all'altra, ove lo si adegui al mutato valore della moneta. Quanto poi alla tesi enunciata nell'ordinanza, in via sub ordinata , che prospetta l'illegittimità sotto l'aspetto della indebita sostituzione alla sanzione penale statale di una regionale non penale, fa osservare come in realtà tale sostituzione non sia avvenuta, secondo risulta dall'art. 17 della legge mineraria statale il quale, pel fatto di avere previsto, oltre all'ipotesi di inosservanza delle prescrizioni prefettizie punita con l'ammenda da lire 50 a 1.000, anche la possibilità di applicare la pena di cui all'art. 434 del Codice penale allora vigente per trasgressione all'ordine dell'autorità, non ha potuto far riferimento a due diverse sanzioni penali per lo stesso fatto delittuoso, ma ha inteso stabilire la coesistenza di una sanzione penale e di altra amministrativa. A ciò non contrasta la denominazione di ammenda in quanto prima dell'entrata in vigore del Codice penale del 1930 non vi era univocità di terminologia in ordine alle sanzioni pecuniarie. Osserva infine che, comunque, non può ritenersi inibito alla Regione, che ha introdotto una disciplina nuova in materia di polizia mineraria, diversa da quella ormai inadeguata del 1893, di porre al posto di una sanzione penale un'altra che tale non é. Conclude chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.

 

Nella discussione orale il difensore della Regione ha insistito nell'invocare il rigetto dell'eccezione.

 

 

 

Considerato in diritto

 

 

 

La tesi sostenuta dalla difesa della Regione secondo cui l'ordinanza ha inesattamente attribuito all'ammenda prevista nell'art. 16 della legge regionale siciliana 4 aprile 1956, n. 23, natura di pena, mentre essa invece avrebbe in realtà indole di sanzione amministrativa, non può essere seguita.

 

La Corte ha già fin dalla sentenza n. 6 del 1956 (poi confermata, fra le altre, dalle sentenze nn. 23 e 58 del 1957, n. 90 del 1962) statuito che la distinzione fra norme penali e norme contenenti sanzioni amministrative va riportata non tanto alla materia cui la norma si riferisce nel comminare una determinata sanzione, bensì al carattere intrinseco di quest'ultima, carattere che é da desumere dalla stessa qualificazione con cui viene designata, allorché tale qualificazione trovi corrispondenza in una di quelle usate dal Codice penale per contraddistinguere le varie pene. E poiché l'ammenda é tassativamente considerata dall'art. 17 del Codice penale come una delle "pene principali" comminabili per le contravvenzioni, non può sorgere dubbio sulla illegittimità costituzionale della norma regionale impugnata, che, prevedendo appunto tale tipo di sanzione, é incorsa nella violazione dell'art. 25 della Costituzione che sancisce la riserva della legge statale in materia.

 

L'esattezza della conclusione cui si é giunti in ordine alla natura da attribuire alla disposizione in esame riceve conferma dalla facoltà che questa dà al colpevole di procedere ad oblazione. Infatti tale facoltà, se considerata secondo la sua specifica natura, quale risulta dalla disciplina che ne fa l'art. 162 del Codice penale con riguardo alle contravvenzioni punibili con ammenda, rispetto alle quali produce effetto estintivo del reato, non può essere in nessun modo riferita alle sanzioni amministrative. Emerge del resto dall'art. 400 dello stesso regolamento esecutivo della legge regionale, approvato con decreto del Presidente regionale del 15 luglio 1958, n. 7, che l'oblazione é consentita prima dell'invio degli atti al Pretore, prevedendosi con ciò un iter del procedimento provocato dall'infrazione del tutto incompatibile con le sanzioni non penali.

 

Quanto ora si é osservato sulla disciplina che il regolamento detta in ordine alla repressione delle infrazioni alla legge regionale mineraria (completata dalle altre norme di cui agli artt. 398 e 399 che si riferiscono proprio alle stesse infrazioni previste dall'art. 16 impugnato) dispensa (anche se si volesse prescindere dal carattere assorbente e preclusivo che hanno le considerazioni prima svolte) dal confutare le argomentazioni con le quali la difesa regionale, muovendo dal confronto fra gli artt. 15 e 16 della legge in esame, vorrebbe trovare una conferma della sua tesi.

 

Ugualmente prive di pregio sono le deduzioni, enunciate in via subordinata, secondo cui anche se la sanzione prevista fosse da considerare penale, essa costituirebbe la riproduzione di una norma dettata dallo Stato nella stessa materia e pertanto sarebbe da ritenere legittima. Come ha infatti già statuito questa Corte in altra occasione, é precluso alle Regioni non soltanto stabilire nuove figure di reato ma anche richiamare sanzioni comminate dalle leggi dello Stato. L'eventuale applicazione di una pena statale nell'ipotesi di violazione di norme regionali, é questione che deve essere risoluta dal giudice penale, non già definita con norma imperativa, dal legislatore regionale (sentenza 13 del 1961).

 

Si deve, pertanto, dichiarare la illegittimità costituzionale della norma impugnata. Spetterà poi al giudice di merito, secondo quanto sopra si é detto, lo stabilire se al fatto che ha dato luogo al procedimento contro Rizzo Francesco e Rizzo Vincenzo non possa eventualmente applicarsi una vigente norma penale.

 

 

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

 

dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 16 della legge regionale siciliana 4 aprile 1956, n. 23, in relazione all'art. 25 della Costituzione.

 

 

 

Così deciso in Roma nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 maggio 1963.

 

Gaspare AMBROSINI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Antonino PAPALDO - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ.

 

 

 

 

 

Depositata in cancelleria il 15 maggio 1963.