Sentenza n. 62 del 1963
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SENTENZA N. 62

ANNO 1963

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Gaspare AMBROSINI, Presidente

Prof. Giuseppe CASTELLI AVOLIO

Prof. Antonino PAPALDO

Prof. Giovanni CASSANDRO

Prof. Biagio PETROCELLI

Dott. Antonio MANCA

Prof. Aldo SANDULLI

Prof. Giuseppe BRANCA

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 77 del D.P.R. 7 gennaio 1956, n. 164, promosso con ordinanza emessa il 15 gennaio 1962 dal Tribunale di Parma nel procedimento penale a carico di Cesari Aldo, iscritta al n. 50 del Registro ordinanze 1962 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 99 del 14 aprile 1962.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udita nell'udienza pubblica del 6 marzo 1963 la relazione del Giudice Giuseppe Verzì;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Valente Simi, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

Nel corso del procedimento penale contro Cesari Aldo, imputato del delitto di omicidio colposo e di due distinte contravvenzioni alla legge per la prevenzione degli infortuni sul lavoro nelle costruzioni, su istanza della difesa, il Tribunale di Parma - con ordinanza del 15 gennaio 1962 - sollevava questione di legittimità costituzionale dell'art. 77 del D.P.R. 7 gennaio 1956, n. 164, in relazione all'art. 4 della legge 12 febbraio 1955, n. 51, ed in riferimento agli artt. 76 e 77 della Costituzione.

Si osserva nell'ordinanza che l'art. 4 della legge delegante 12 febbraio 1955, n. 51, mentre dispone che per le violazioni delle norme... "potrà essere stabilita la pena dell'arresto fino a tre mesi e dell'ammenda non superiore a lire 300.000", non fissa i limiti minimi di pena, intendendo con ciò rinviare a quanto dispone in via generale l'art. 26 del Codice penale. Invece la legge delegata stabilisce all'art. 77 la pena dell'ammenda in misura minima di lire 50.000, 100.000 e 200.000, a seconda delle diverse contravvenzioni, violando i limiti della delega legislativa.

Riconosciuta così la non manifesta infondatezza e la rilevanza della suindicata questione di legittimità costituzionale, il detto Tribunale ha ordinato la sospensione del giudizio e la trasmissione degli atti a questa Corte.

L'ordinanza é stata regolarmente notificata, comunicata e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 99 del 14 aprile 1962.

Nel presente giudizio vi é stato soltanto l'intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato.

Nelle deduzioni depositate in cancelleria e nella memoria illustrativa del 5 febbraio 1963, l'Avvocatura dello Stato deduce la manifesta infondatezza della questione proposta, osservando che l'art. 26 del Codice penale si limita a fissare il limite minimo e massimo dell'ammenda senza vincolare per nulla il legislatore nella pena da comminare per i singoli reati. Aggiunge che la legge delegante, avendo stabilito la sola misura massima della pena, ha inteso imporre un solo limite, rimettendo al potere discrezionale del legislatore delegato di fissare i minimi della sanzione e che non sembra possibile desumere un vincolo da una legge ordinaria, come il Codice penale, che per sua natura é pienamente derogabile anche dagli atti legislativi delegati. Cita, infine, una sentenza della Corte di cassazione, che ha dichiarato manifestamente infondata la stessa questione.

 

Considerato in diritto

 

L'eccesso di delega, che l'ordinanza del Tribunale di Parma pone a fondamento della questione di legittimità costituzionale dell'art. 77 del D.P.R. 7 gennaio 1956, n. 164, non sussiste. La questione sorge soltanto per la interpretazione data dal Tribunale alla norma dell'art. 4 della legge 12 febbraio 1955, n. 51, la quale ha posto un limite massimo (lire 300.000) alla pena dell'ammenda, ma nulla ha detto in merito al minimo della stessa pena. Secondo il Tribunale, col silenzio, il legislatore avrebbe inteso rinviare alla disposizione dell'art. 26 del Codice penale, onde l'art. 77 suindicato - nel comminare per le varie contravvenzioni ammende che vanno da un minimo di lire 50.QOO, di lire 100.000 e di lire 200.000 fino a quel massimo fissato dalla legge delegante - avrebbe violato i limiti della delega legislativa.

Rileva questa Corte che la norma dell'art. 4 della legge n. 51 del 1955 non si presta alla interpretazione data dal Tribunale, quando venga inquadrata ed esaminata nei rapporti fra legge delegante e legge delegata.

Ed infatti - anche a non volere tenere conto della ampiezza della delega, quale si desume dall'art. 3 della legge n. 51 del 1955 - basta considerare che l'oggetto principale della delega contenuta nell'art. 4 é precisamente quello di fissare le sanzioni penali per le singole violazioni alle norme di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro -il che vuoi dire, in altri termini, determinare un minimo ed un massimo di ammenda entro il quale il giudice possa spaziare nella applicazione concreta della pena-, per dedurre che già sussiste la delega di fissare il minimo di ammenda. Quando si tenga presente che, nel processo formativo della legge delegata, c'é sempre uno sviluppo di ulteriore attività legislativa, sia pure circoscritta entro limiti di tempo, di oggetto, di principi e di criteri direttivi, mal si giustifica, nel silenzio della legge delegante sui minimi di ammenda, il rinvio ad una disposizione di altra legge ordinaria, quale é il Codice penale.

Inoltre, nel sistema del Codice penale, le disposizioni che prevedono i singoli reati, determinano, di regola, per ciascuno di essi, il minimo ed il massimo della sanzione, spaziando entro i limiti della norma generale che descrive il tipo e le caratteristiche della pena. Ne consegue, da un canto, che l'impugnato art. 77, fissando minimi di pena al di sopra di quelli stabiliti dall'art. 26 del Codice penale, si é in sostanza attenuto a siffatto principio; e, dall'altro, che l'argomento addotto dal Tribunale di Parma avrebbe potuto trovare giustificazione soltanto nel caso in cui il legislatore avesse fissato minimi di ammenda inferiori a quelli previsti dall'art. 26.

Infine, lo stesso art. 77, che commina, per ciascuna contravvenzione, minimi di pena decisamente elevati, risponde alle finalità che il legislatore delegante intendeva conseguire e ad una direttiva implicitamente contenuta nella legge delegante. Come risulta dalle relazioni parlamentari, l'ammenda fu elevata nel massimo dalle lire 80.000 previste a quel tempo dal Giudice penale a lire 300.000, allo scopo dichiarato di evitare che la sanzione penale rimanesse inoperante e potesse "indurre eventualmente il datore di lavoro a correre il rischio di pagare la penale piuttosto che sostenere il maggiore onere necessario per l'adozione delle indispensabili misure di sicurezza". Se sussisteva, pertanto, la particolare esigenza di conferire alla pena una più valida forza ed efficienza, il legislatore delegato era tenuto a proporzionarla anche nei rapporti fra minimo e massimo e non poteva, senza frustrare lo scopo perseguito dalla legge delegante, partire dal minimo di ammenda di sole lire 160, quale era quello previsto a quel tempo dall'art. 26 del Codice penale.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 77 del D.P.R. 7 gennaio 1956, n. 164, sollevata dal Tribunale di Parma con l'ordinanza del 15 gennaio 1962, in relazione all'art. 4 della legge 12 febbraio 1955, n. 51, ed in riferimento agli artt. 76 e 77 della Costituzione.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 maggio 1963.

Gaspare AMBROSINI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Antonino PAPALDO - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ.

 

 

Depositata in cancelleria il 10 maggio 1963.