Sentenza n. 93 del 1962
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SENTENZA N. 93

ANNO 1962

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE 

composta dai signori giudici:

Prof. Gaspare AMBROSINI, Presidente

Dott. Mario COSATTI

Prof. Giuseppe CASTELLI AVOLIO

Prof. Antonino PAPALDO

Prof. Nicola JAEGER

Prof. Giovanni CASSANDRO

Prof. Biagio PETROCELLI

Dott. Antonio MANCA

Prof. Aldo SANDULLI

Prof. Giuseppe BRANCA

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI,

Dott. Giuseppe VERZÌ

ha pronunciato la seguente  

SENTENZA 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 18 della legge fallimentare (R. D. 16 marzo 1942, n. 267), promosso con ordinanza emessa il 22 giugno 1961 dal Tribunale di Roma nel procedimento civile vertente tra Querci Cesare, Illuzzi Vincenzo e il curatore del fallimento della Società immobiliare "I.R. I.R. ", iscritta al n. 202 del Registro ordinanze 1961 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5 del 5 gennaio 1962.

Visti l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri e l'atto di costituzione in giudizio di Illuzzi Vincenzo;

udita nell'udienza pubblica del 17 ottobre 1962 la relazione del Giudice Nicola Jaeger;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Giuseppe Guglielmi, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.  

Ritenuto in fatto 

Il liquidatore di una Società immobiliare (I.R.I.R.) dichiarata fallita con sentenza 18-27 luglio 1960 del Tribunale di Roma, conveniva in giudizio davanti allo stesso Tribunale il curatore del fallimento e il creditore Illuzzi Vincenzo con atto notificato il 3 dicembre 1960, chiedendo la revoca della dichiarazione di fallimento.

L'Illuzzi si costituiva in termini ed eccepiva che l'opposizione alla sentenza era stata proposta tardivamente, essendo stata notificata nel 130 giorno dalla dichiarazione di fallimento, quindi molto al di là dei termini stabiliti nell'art. 18 della legge fallimentare.

A questo punto l'opponente eccepiva la illegittimità costituzionale di tale norma, asserendo che essa era in contrasto con le norme contenute nel primo e nel secondo comma dell'art. 24 della Costituzione.

Il giudice delegato e istruttore rimetteva le parti al collegio per l'esame della questione, e il Tribunale, con ordinanza in data 22 giugno 1961, sospendeva il giudizio e ordinava la trasmissione degli atti a questa Corte, ritenendo non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale nei termini in cui era stata proposta.

Il Tribunale osserva che l'art. 18 della legge fallimentare (R.D. 16 marzo 1942, n. 267) stabilisce - in deroga alle disposizioni contenute nell'art. 152 del Cod. proc. civ. - in giorni quindici il termine utile, entro il quale il debitore e qualunque interessato possono fare opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento, e fissa la decorrenza di tale termine dal giorno dell'affissione della sentenza stessa alla porta esterna del Tribunale, sostituendo tale forma di notificazione a quella normale prevista dall'art. 137 del Cod. proc. civile.

Aggiunge poi che la differenza fra le due forme di notificazione, e cioè tra quella seguita nel procedimento ordinario e quella prescelta nel processo fallimentare, é così profonda, sia per la maniera con la quale viene effettuata (affissione), sia perché limitata al solo estratto della sentenza, e sia, infine, per la brevità del termine concesso per far opposizione, da far logicamente dubitare che gli interessati possano avere idonea e tempestiva notizia del provvedimento per predisporre, in tempo utile, la loro difesa. Tale dubbio é aggravato dalla rigidità del termine, cui - come é noto - la Cassazione ha riconosciuto il carattere della perentorietà, e dal fatto che la comunicazione diretta agli interessati, prevista dal precedente art. 17, può, per ovvie ragioni, subire ritardi o, come talvolta avviene, avere esito negativo. Vero é che il legislatore é mosso dalla presunzione generale di conoscenza della sentenza dichiarativa di fallimento, data la natura pubblicistica dell'istituto, nonché dalla esigenza di imprimere rapidità e snellezza al procedimento relativo; ma non é men vero che la stessa sentenza é un provvedimento di così grande importanza, per le gravi conseguenze d'ordine morale, giuridico ed economiche che essa comporta, da esigere il rigido rispetto, nei confronti di chiunque vi abbia interesse, di tutte le garanzie volute dai principi generali del diritto e da quelle sancite nella Costituzione, fra le quali la inviolabilità del diritto del cittadino ad esercitare utilmente la propria difesa (art. 24 della Carta costituzionale).

L'ordinanza é stata notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri, comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento e pubblicata, per disposizione del Presidente della Corte costituzionale, nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5 del 5 gennaio 1962.

Si é costituito nel giudizio solo il creditore Illuzzi; ed é intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso, come per legge, dall'Avvocatura generale dello Stato.

Nel proprio atto di intervento, depositato in cancelleria il 2 ottobre 1961, l'Avvocatura generale dello Stato si richiama a precedenti decisioni della Corte costituzionale su questioni analoghe alla presente ed osserva che, ove si accogliesse il principio affermato dal Tribunale di Roma, si giungerebbe ad ammettere una indagine di merito su qualsiasi norma, che possa sembrare a un giudice tale da imporre obblighi di eccessivo rigore a carico di un soggetto del processo, e si finirebbe col confondere un problema di politica legislativa con un problema (inesistente) di legittimità costituzionale. Conclude perché la questione proposta dal Tribunale di Roma sia dichiarata infondata.

Nelle deduzioni depositate il 3 gennaio 1962 la difesa dell'Illuzzi si sofferma particolarmente su considerazioni concernenti il merito della norma denunciata, per dimostrare che essa accorda sufficienti possibilità di difesa al debitore dichiarato fallito e, pertanto, non é in contrasto con i principi della Costituzione, e conclude perché la Corte dichiari la legittimità costituzionale della norma stessa.

Alla pubblica udienza del 17 ottobre 1962 l'Avvocato dello Stato ha ribadito le argomentazioni già esposte nelle deduzioni.  

Considerato in diritto 

La questione sottoposta all'esame della Corte dal Tribunale di Roma ha quale oggetto la compatibilità delle forme e del termine stabiliti dalla legge per l'opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento con il principio contenuto nell'art. 24 della Costituzione, che afferma e garantisce il diritto di difesa in giudizio. Il dubbio é sorto per il fatto che l'art. 18 del R. D. 16 marzo 1942, n. 267, c. d. legge fallimentare, stabilisce quel termine in quindici giorni e ne fissa la decorrenza dal giorno della affissione della sentenza (per estratto) alla porta esterna del Tribunale. Poiché non sempre la comunicazione del provvedimento agli interessati, disposta dall'art. 17 della legge, avviene contemporaneamente e, d'altra parte, il termine suddetto é stato riconosciuto perentorio dalla Corte di cassazione, si domanda se possa considerarsi garantito il diritto di difesa nei casi nei quali coloro che sarebbero legittimati a proporre opposizione a quella sentenza non abbiano potuto neppure avere una tempestiva conoscenza di essa.

La Corte osserva che non si può sicuramente contestare che in qualche caso taluno degli interessati, se non il fallito, possa venire a trovarsi nella condizione di ignorare per un tempo anche lungo la pronuncia della sentenza dichiarativa di fallimento, specialmente se risieda in luoghi lontani dalla sede principale dell'impresa e con scarsi mezzi di comunicazione. Oggi, peraltro, non può trattarsi se non di casi molto rari o addirittura eccezionali, resi possibili soltanto dal concorso di una notevole dose di indifferenza e negligenza da parte dell'interessato. Comunque, l'ipotesi prospettata é inerente al carattere essenziale di quelle crisi di impresa, che trovano rimedio nel fallimento e negli altri procedimenti concorsuali, e sono contraddistinte dalla presunzione dell'esistenza di una serie di creditori, non determinata né quanto al numero, né quanto alla identità di essi, almeno fino al momento della approvazione dello stato passivo del fallimento, e, in realtà, neppure allora in modo assolutamente certo e definitivo.

Per questo la forma della notificazione mediante pubblici proclami, ammessa in via generale dal nostro Cod. proc. civ. (art. 150) previa autorizzazione del capo dell'ufficio, si é imposta a tutte le legislazioni ed é stata da queste adottata come l'unico mezzo esperibile nell'interesse generale, data la impossibilità di raggiungere altrimenti tutti coloro, che hanno avuto rapporti di affari con l'imprenditore caduto in dissesto. D'altra parte é da ricordare che non si provvede soltanto all'affissione dell'estratto della sentenza alla porta esterna del Tribunale: esso viene comunicato al Pubblico Ministero, alla cancelleria del Tribunale nella cui giurisdizione il debitore é nato o la società fu costituita, ed all'Ufficio del registro delle imprese per l'iscrizione, da farsi non oltre il giorno successivo al ricevimento, e deve essere inoltre pubblicato nel foglio degli annunzi legali della Provincia a cura del cancelliere (art. 17 della legge fallimentare).

In quanto all'imprenditore, anche a prescindere dal fatto che la legge prevede che egli sia sentito dal Tribunale prima della dichiarazione di fallimento, e che ciò avviene anzi normalmente, in quasi tutti i Tribunali, salvo casi di dissesto clamoroso, o di fuga o di latitanza di lui, é praticamente da escludere la eventualità che una impresa - oltretutto non piccola, perché altrimenti sottratta al campo di applicazione dei procedimenti concorsuali (art. 1 della legge) - venga assoggettata al fallimento senza che ne abbiano nessun sospetto né il titolare, né alcuno dei collaboratori e dipendenti di lui in grado di informarlo di quanto avviene anche nel caso di sua assenza e tenuti a farlo per dovere elementare di ufficio. Anche se la comunicazione fosse fatta in ritardo, costoro non potrebbero ignorare l'apposizione dei sigilli, che deve avvenire immediatamente (art. 84).

Rimane da considerare il punto della misura del termine stesso, che il Tribunale ha collegato con quello concernente la decorrenza di esso. Poiché il diritto di difesa, al pari di ogni altro diritto garantito dalla Costituzione, deve essere regolato dalla legge ordinaria in modo da assicurarne la elettività, la Corte osserva che, ove per l'esercizio di esso fossero stabiliti dalla norma denunciata termini così ristretti da renderlo estremamente difficile, la norma stessa dovrebbe essere dichiarata illegittima. Senonché, non sembra che il termine di quindici giorni stabilito nell'art. 18 della legge fallimentare debba essere ritenuto incongruo.

La congruità di un termine deve essere valutata tanto in rapporto all'interesse del soggetto che ha l'onere di compiere un certo atto per salvaguardare i propri diritti, quanto in relazione alla funzione assegnata all'istituto nel sistema dell'intero ordinamento giuridico. Le finalità proprie del fallimento, che rispondono a evidenti interessi generali - della serie dei creditori e, almeno mediatamente, dell'intera comunità politica - , hanno indiscutibile natura pubblica ed esigono misure di pronto intervento, di accertamento rapido dei diritti dei diversi soggetti interessati e, nel contempo, un notevole grado di stabilità giuridica dei provvedimenti, i quali non risponderebbero più alla propria funzione se fosse possibile impugnarli anche a notevole distanza di tempo.

Il Codice di commercio del 1882 aveva regolato l'opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento assegnando due termini diversi, di otto giorni dall'affissione della sentenza per il fallito, e di trenta giorni dalla stessa data per ogni altro interessato (art. 693). La legge vigente ha unificato i due termini, il primo dei quali era considerato troppo breve, mentre il secondo ritardava eccessivamente la formazione del giudicato anche nel caso di mancanza di opposizione, in un solo termine di quindici giorni, dettato per tutti gli interessati. Ad avviso della Corte, tale termine non può ritenersi incongruo, così ai fini dell'esercizio effettivo del diritto di difesa, come a quelli della speditezza delle operazioni della procedura fallimentare e della sicurezza della permanenza della loro efficacia. Pertanto, il dubbio sulla legittimità costituzionale della norma non si può considerare fondato.  

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale della norma contenuta nell'art. 18 del R. D. 16 marzo 1942, n. 267, in riferimento all'art. 24 della Costituzione.  

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 novembre 1962.

Gaspare AMBROSINI - Mario COSATTI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Antonino PAPALDO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ

 

Depositata in cancelleria il 22 novembre 1962.