Sentenza n. 52 del 1962
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SENTENZA N. 52

ANNO 1962

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE 

composta dai signori giudici:

Avv. Giuseppe CAPPI, Presidente

Prof. Gaspare AMBROSINI

Dott. Mario COSATTI

Prof. Francesco Pantaleo GABRIELI

Prof. Giuseppe CASTELLI AVOLIO

Prof. Antonino PAPALDO

Prof. Nicola JAEGER

Prof. Giovanni CASSANDRO

Prof. Biagio PETROCELLI

Dott. Antonio MANCA

Prof. Aldo SANDULLI

Prof. Giuseppe BRANCA

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI,

ha pronunciato la seguente   

SENTENZA 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 5, comma terzo, del Concordato tra la Santa Sede e l'Italia dell'11 febbraio 1929 promosso con deliberazione emessa il 21 marzo 1961 dal Consiglio comunale di Ucria sulla richiesta di decadenza del Sindaco Niosi Francesco Paolo, iscritta al n. 65 del Registro ordinanze 1961 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 124 del 20 maggio 1961.

Vista la dichiarazione di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udita nell'udienza pubblica del 21 marzo 1962 la relazione del Giudice Antonio Manca:

uditi gli avvocati Lelio Basso e Lucio Luzzatto, per Niosi Francesco Paolo, e il sostituto avvocato generale dello Stato Giuseppe Guglielmi, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.  

Ritenuto in fatto 

1. - Dalla deliberazione del Consiglio comunale di Ucria del 21 marzo 1961, n. 13, risulta che il Consiglio é stato convocato in seguito alla nota dell'Assessorato regionale per l'amministrazione civile, in data 23 febbraio 1961, n. 12202, esibita in copia autentica fra gli atti, e il cui contenuto, per la parte che riguarda l'attuale causa (riportato testualmente anche nel verbale della deliberazione) é del seguente tenore:

"Viene segnalata a questo Assessorato l'esistenza di alcune cause di ineleggibilità nei confronti di diversi consiglieri di codesto Comune. In particolare la S. V. (cioè il Sindaco Francesco Paolo Niosi) in quanto sacerdote apostata non avrebbe potuto essere chiamato a ricoprire la carica di consigliere e, quindi, di Sindaco, siccome disposto dall'art. 5, terzo comma, del Concordato 11 febbraio 1929 tra la Chiesa e lo Stato".

Dopo aver accennato a cause di ineleggibilità nei riguardi di altri due consiglieri, la nota continua: "Premesso quanto sopra si diffida la S. V. a voler riunire, entro otto giorni dal ricevimento della presente, il Consiglio comunale e ciò sia in prima che in seconda convocazione, ponendo al relativo ordine del giorno la decadenza dei succitati tre consiglieri. Si avverte che ove tale termine dovesse trascorrere infruttuosamente, questo Assessorato si avvarrà dei poteri sostitutivi previsti dall'art. 19 del decreto legislativo del Presidente della Regione siciliana 29 ottobre 1955, n. 6".

Risulta, altresì, che il Sindaco Niosi, premesso che il Consiglio era chiamato a esaminare il caso in sede giurisdizionale, in quanto la precedente deliberazione del 20 novembre 1960, n. 36, aveva convalidato la sua elezione a consigliere comunale, e quella successiva del 21 dicembre 1960, n. 4003, aveva convalidato la sua elezione a Sindaco, e che queste deliberazioni erano state approvate dall'organo di controllo, rilevò che l'art. 7 della Costituzione non avrebbe costituzionalizzato le norme contenute nei Patti Lateranensi, e che l'art. 5 del Concordato, norma ordinaria, sarebbe in contrasto con i precetti contenuti negli artt. 3 e 51 della Costituzione. I quali, in quanto concernenti diritti naturali della personalità umana, avrebbero caducato le norme contenute nei Patti. Chiese, quindi, che il Consiglio sollevasse la questione di legittimità costituzionale dell'articolo predetto rimettendo gli atti a questa Corte.

In via subordinata e nel merito, contestò l'esattezza del presupposto di fatto posto a base della richiesta dell'Assessorato, osservando che esso Niosi non potrebbe ritenersi prete apostata, dato che, pur avendo lasciato l'abito talare, non avrebbe abbracciato una religione diversa da quella cattolica.

In seguito all'intervento, in vario senso, di due componenti, il Consiglio, riunito, come si afferma, in sede giurisdizionale, per decidere sulla richiesta di decadenza del Sindaco Niosi, adottò la seguente deliberazione: "Ritenuto che la decisione non può essere presa e il giudizio non può essere definito indipendente mente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale sollevata; ritenuto che la questione non é manifestamente infondata, stante la incidenza che esercitano gli artt. 3 e 51 della Costituzione in riferimento all'art. 5, comma terzo, del Concordato; delibera di trasmettere gli atti alla Corte costituzionale per accertare se la norma contenuta nell'articolo citato sia incostituzionale per contrasto con gli artt. 3 e 51 della Costituzione, sospendendo il giudizio".

2. - La deliberazione, notificata e comunicata a norma di legge, é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 124 del 20 maggio 1961.

In questa sede si sono costituiti gli avvocati Lucio Luzzatto e Lelio Basso, in rappresentanza del Niosi, e l'Avvocatura generale dello Stato, in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei Ministri.

La difesa del Niosi, nelle deduzioni depositate il 9 giugno 1961, sostiene che la questione di legittimità costituzionale, sollevata sulla predetta deliberazione, troverebbe fondamento negli artt. 3 e 51, primo comma, della Costituzione, il quale ultimo sanziona il diritto di tutti i cittadini di accedere agli uffici e alle cariche pubbliche in condizioni di eguaglianza, e che la situazione in cui si troverebbe il Niosi non potrebbe ricomprendersi fra i requisiti ai quali si richiama l'art. 51, in quanto la permanenza dello stato sacerdotale, secondo l'ordinamento della Chiesa cattolica, non potrebbe avere alcune rilevanza nell'ordinamento dello Stato. Aggiunge, altresì, che il riferimento dell'art. 7 della Costituzione ai Patti Lateranensi non farebbe venir meno la illegittimità di quelle norme in essi contenute che fossero in contrasto con gli altri precetti costituzionali.

Conclude, pertanto, perché questa Corte dichiari l'illegittimità costituzionale dell'art. 5, terzo comma, del Concordato, nonché dell'art. 1 della legge 27 maggio 1929, n. 810 (che ha dato esecuzione al Trattato, ai quattro allegati annessi e al Concordato fra la Santa Sede e l'Italia), in quanto si riferisce all'art. 5.

3. - La difesa dello Stato, nelle deduzioni depositate il 2 maggio 1961, deduce l'inammissibilità della questione perché l'art. 7 della Costituzione, se non ha formalmente costituzionalizzato le norme contenute nel Concordato, avrebbe tuttavia attribuito alle medesime forza di norme costituzionali, con la conseguenza che il coordinamento delle norme stesse con quelle della Costituzione porterebbe ad escludere qualsiasi contrasto fra le norme stesse.

Aggiunge che, comunque, la questione dovrebbe ritenersi manifestamente infondata. Dal riconoscimento nella prima parte dell'art. 7, della sovranità e indipendenza della Chiesa cattolica nel suo ordine, deriverebbe anche il riconoscimento della indipendenza e sovranità dell'ordinamento canonico. Onde colui che liberamente scelga lo stato clericale assumerebbe, nel predetto ordinamento, una posizione che avrebbe rilevanza nell'ordinamento statale, anche per quanto attiene alle cause di incapacità e di indegnità.

D'altra parte, il principio dell'eguaglianza sancito nell'art. 3 dovrebbe essere inteso in riferimento ai vari casi specificamente preveduti in altri articoli della Costituzione, e, nella specie, in riferimento agli artt. 48 e 51, i quali entrambi rimandano alla legge ordinaria per la determinazione delle condizioni richieste per l'elettorato e per l'accesso ai pubblici uffici. E mentre l'articolo 48 escluderebbe il diritto di voto e, quindi, anche l'elettorato passivo per gli incapaci e gli indegni, l'art. 51, a sua volta, rimanda alla legge ordinaria lo stabilire i requisiti fra i quali sarebbero da comprendere quelli di capacità e di moralità necessari per l'accesso agli uffici pubblici.

4. - Nella memoria depositata il 2 marzo 1962, l'Avvocatura dello Stato, oltre ad insistere sulla inammissibilità, nel senso accennato nelle deduzioni, prospetta l'eccezione sia in relazione al carattere della deliberazione che ha sollevato la questione, sia in relazione alla norma impugnata, cioè l'art. 5 del Concordato e non già la legge del 1929 che vi ha dato esecuzione, della quale, invece, é menzione nelle conclusioni della difesa del Niosi.

Circa il primo punto l'Avvocatura si rimette al giudizio di questa Corte, trattandosi di accertare se la deliberazione sia stata o non emessa in sede giurisdizionale e sussista, quindi, la competenza di questa Corte a decidere la controversia.

5. - Sul secondo punto, con varie argomentazioni, rileva, in sostanza, che, siccome anche al Concordato ed al Trattato, inscindibilmente collegati, si applicherebbero i principi che regolano le convenzioni internazionali e si dovrebbe ad essi riconoscere il carattere di estraneità all'ordinamento interno statale, allo stesso modo che il Parlamento non potrebbe abrogare le disposizioni in essi contenute senza violare l'art. 7 e l'art. 10 della Costituzione, così sarebbe da escludere che l'abrogazione, o quanto meno gli effetti della medesima, potessero indirettamente derivare da una sentenza della Corte costituzionale.

Posto ciò, prosegue l'Avvocatura, la questione potrebbe se mai essere sollevata in relazione alla legge che ha dato esecuzione ai Patti, essendo norme emanate nel diritto interno. Ma, poiché, nella specie, a tale legge non si farebbe alcun richiamo nella deliberazione del Comune, ma soltanto nelle deduzioni della parte privata, ne conseguirebbe un motivo di inammissibilità. Senonché, si sostiene, neppure riguardo a quest'ultima legge sarebbe ammissibile la questione di costituzionalità.

Ciò perché il legislatore costituente, avendo fatto esplicito riferimento, nella prima parte del secondo comma dell'art. 7, ai Patti Lateranensi, implicitamente, ma inequivocabilmente, ne avrebbe riconosciuta la compatibilità con i precetti della Costituzione. E perché, inoltre, la dichiarazione di illegittimità di alcune delle norme contenute nei Patti Lateranensi, inscindibili fra loro, anche nelle singole parti, importerebbe di riflesso la denunzia dei Patti stessi con violazione del principio pacta sunt servanda, sancito in via generale nell'art. 10 della Costituzione e ribadito nell'art. 7 relativamente ai rapporti fra lo Stato e la Chiesa cattolica.

6. - Per ciò che attiene al merito, l'Avvocatura insiste nel sostenere l'infondatezza della questione.

Non sussisterebbe, infatti, violazione del principio dell'eguaglianza se talune situazioni, inerenti allo status di sacerdote cattolico, volontariamente abbracciato dal cittadino, e rilevante nel nostro ordinamento, siano valutate diversamente rispetto agli altri cittadini, in quanto si riferirebbero a categorie di persone e non ai singoli individui.

Non sarebbe più esatto, secondo l'Avvocatura, ritenere che una causa di indegnità che si ricollegasse al sacerdote apostata o sotto censura, contrasterebbe con la libertà di religione costituzionalmente garantita, perché il divieto contenuto nel terzo comma dell'art. 5 del Concordato si riferirebbe allo status sacerdotale e non alla religione praticata. Né rileverebbe il fatto che l'apostata ab ordine abbia volontariamente abbandonato tale posizione, poiché ciò deriverebbe non già da provvedimenti ecclesiastici, disciplinari o di dispensa, nei casi preveduti dal diritto canonico, bensì da un atto volontario, con violazione dei doveri inerenti allo stato anzidetto.

7. - Anche la difesa della parte privata, ha depositato l'8 marzo 1962 una memoria, nella quale, confuta anzitutto la tesi dell'inammissibilità della questione in relazione alla qualificazione delle norme contenute nei Patti Lateranensi come norme costituzionalizzate. Rileva: che tale qualificazione non sarebbe stata accolta dal legislatore costituente secondo le risultanze dei lavori preparatori e della discussione dinnanzi all'Assemblea costituente; che alla stessa conclusione si dovrebbe pervenire se si tiene presente la materia che forma oggetto dei Patti Lateranensi, i quali regolano un complesso di situazioni e di rapporti non idonei ad essere iscritti nella Costituzione, anche perché riguardano la disciplina dei rapporti esterni fra due ordinamenti proclamati rispettivamente indipendenti e sovrani; che la tesi della costituzionalizzazione sarebbe esclusa dallo stesso contenuto dell'art. 7 che prevede la possibilità che ai Patti si possano apportare modificazioni con legge ordinaria, sia pure in base ad accordi fra le parti contraenti.

Né, si aggiunge, risulterebbe che il legislatore costituente abbia inteso riconoscere valore costituzionale alla legge di esecuzione, esclusivamente rilevante nell'ordinamento interno, poiché l'art. 7 della Costituzione si riferisce non già a rapporti di diritto interno, bensì ad accordi di carattere esterno.

Secondo la difesa della parte privata, quindi, é soltanto il principio concordatario, per sé stesso considerato, che si é inteso costituzionalizzare, mentre la menzione dei Patti Lateranensi nell'art. 7, deriverebbe da ragioni politiche affiorate nella discussione davanti all'Assemblea costituente, e l'ultima parte dell'art. 7, che esclude l'obbligo della revisione costituzionale, sarebbe stata appunto inserita allo scopo di precisare che si sarebbe inteso soltanto stabilire le modalità per eventuali modificazioni dei Patti stessi.

Se ne deduce, quindi, che le leggi di esecuzione, in quanto leggi ordinarie, e quelle che apportassero modificazioni alle norme dei Patti, sarebbero sempre subordinate alle norme contenute nella Costituzione e soggette perciò al sindacato costituzionale.

Alle stesse conclusioni si dovrebbe pervenire in base al primo comma dell'art. 7, che, riconoscendo l'indipendenza e la sovranità, rispettivamente nel loro ordine, dello Stato e della Chiesa, costituisce non già un'enunciazione superflua, bensì la premessa necessaria delle disposizioni contenute nel secondo comma, chiarendo, nei rapporti fra i due enti, come ciascuno non possa ingerirsi nella materia rispettivamente riservata. Onde sarebbe inconcepibile che, mentre da un lato si affermasse la sovranità dello Stato, dall'altro possa ritenersi consentito che i cittadini possano essere menomati nei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione, da situazioni rilevanti nel diritto canonico, ma non nell'ordinamento proprio dello Stato.

Si rileva, altresì, per quanto attiene alle cariche elettive, che la sovranità dello Stato assume maggiore rilievo in quanto esse riflettono le basi stesse del suo ordinamento attenendo alla scelta dei rappresentanti del popolo nelle pubbliche cariche.

La difesa della parte privata, in base alle considerazioni anzidette é portata a concludere nel senso della proponibilità della questione di legittimità costituzionale.

8. - Nel merito, la difesa della parte privata ribadisce la tesi già sostenuta nelle deduzioni nel senso che la disposizione impugnata sia in contrasto con gli artt. 3 e 51 della Costituzione.

Non disconosce che il principio di eguaglianza, nella sua concreta attuazione, consente al legislatore ordinario di regolare con norme diverse situazioni obiettivamente diverse, cosicché non potrebbero ritenersi contrastanti con tale principio, purché rispondenti a criteri di razionalità, quelle disposizioni che richiedessero particolari capacità o attitudini per l'esercizio di determinate funzioni. Ma poiché l'art. 3, espressamente esclude ogni discriminazione, in quanto si riferisca, tra l'altro, alla religione e alle opinioni politiche, qualsiasi limite si volesse far derivare dall'apostasia del sacerdote, in quanto inciderebbe sulla libertà di religione, sarebbe in palese contrasto con il precetto anzidetto. Il quale dovrebbe essere tenuto presente anche nella interpretazione dell'art. 51 della Costituzione, per quanto attiene ai requisiti per accedere al pubblico impiego e alle cariche pubbliche. Requisiti che consisterebbero nel possesso della piena capacità giuridica, secondo le leggi dello Stato.

Né varrebbe obiettare che, nel caso di sacerdote apostata o irretito da censura, si tratterebbe di situazioni derivanti da uno stato volontariamente accettato. Poiché se l'ordinamento canonico può attribuire carattere di perpetuità a talune situazioni soggettive, tale principio sarebbe estraneo e incompatibile con l'ordinamento dello Stato che é pure sovrano e indipendente nel suo ordine a norma dell'art. 7 della Costituzione. La garanzia dei diritti inviolabili dell'uomo sancita negli artt. 2 e 4 della Costituzione escluderebbe ogni limitazione di diritti che derivassero da vincoli di subordinazione di carattere perpetuo, o da sanzioni preventive, stabilite da un ordinamento estraneo a quello statale.  

Considerato in diritto 

1. - Riguardo all'eccezione cui accenna l'Avvocatura dello Stato nella memoria, rilevabile del resto anche di ufficio, occorre preliminarmente esaminare se la questione di legittimità costituzionale dell'art. 5, comma terzo, del Concordato fra la Santa Sede e l'Italia 11 febbraio 1929, sia stata ritualmente sollevata con la deliberazione n. 13 del 21 marzo 1961 del Consiglio comunale di Ucria. Eccezione che, se fondata, avrebbe carattere preclusivo rispetto ad ogni altra indagine. Attiene, infatti, all'accertamento circa la sussistenza o meno dei presupposti processuali stabiliti dagli artt. 1 delle leggi costituzionali 9 febbraio 1948, n. 1, e 11 marzo 1953, n. 1, e dall'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, inderogabili ai fini della competenza di questa Corte a decidere la controversia. In base ad essi, come é noto, la questione di costituzionalità, in via incidentale, non può essere sollevata se non nel corso di un giudizio davanti ad un'Autorità giurisdizionale. E questa Corte, con varie sentenze (vedasi in particolare la sentenza n. 24 del 1958), interpretando largamente le accennate disposizioni ha ritenuto che tali presupposti sussistono anche nei procedimenti davanti al magistrato ordinario, in sede di volontaria giurisdizione.

Nella specie, ai fini di tale accertamento, occorre anche tenere presente, che gli organi elettivi degli enti autarchici (nella specie il Consiglio comunale) non sono istituzionalmente organi giurisdizionali. Essi assumono eccezionalmente tale carattere, secondo quanto ha ripetutamente affermato questa Corte (sent. nn. 42, 43 e 44 del 1961 e varie ordinanze) quando sono investiti delle controversie circa il contenzioso elettorale, con l'osservanza dei termini e delle forme stabiliti dalle disposizioni vigenti della legge statale (T.U. 16 maggio 1960, n. 570), riprodotte nel T.U. regionale 20 agosto 1960, n. 3, con un procedimento cioè, che, come ha pure precisato questa Corte, si inizia ad istanza di parte, nei confronti dei soggetti interessati a contraddire.

2. - Ora, dal testo della deliberazione non soltanto non risulta che davanti al Consiglio comunale si sia costituito un rapporto processuale secondo le norme stabilite per il contenzioso elettorale, ma, per contro, emergono elementi tali da escludere che si sia instaurato un procedimento ai sensi e per gli effetti delle disposizioni contenute nelle leggi costituzionali e ordinaria sopra citate, anche se intese in largo senso secondo l'orientamento giurisprudenziale sopra ricordato.

In vero, nella nota n. 12202 del 23 febbraio 1961 (riportata integralmente nella deliberazione consiliare) trasmessa al Sindaco di Ucria dall'Assessore regionale per l'amministrazione civile, non si possono fondatamente riscontrare gli elementi costitutivi di un'istanza di un soggetto portatore, in qualità di parte, di un interesse individualizzato, diretta ad ottenerne la tutela dall'organo competente, qualora se ne considerino la forma, il contenuto e la finalità. La nota stessa, infatti, era stata inviata (e, si noti, comunicata anche per conoscenza al Prefetto di Messina ed alla Commissione provinciale di controllo), in base al potere-dovere inerente all'ufficio, ai sensi dell'art. 91 dell'ordinamento degli enti locali nella Regione siciliana (approvato con decreto del Presidente della Regione 29 ottobre 1955, n. 6): come espressione cioè non già di un'iniziativa di carattere processuale, bensì come esercizio del potere di vigilanza sugli organi comunali attribuito all'Assessore, nella forma del controllo sostitutivo, quando si verifichino le situazioni prevedute in detto articolo; onde la nota anzidetta era destinata ad operare esclusivamente nel campo di un'attività di carattere amministrativo, alla quale si riferisce l'accennato potere di controllo.

Il che é confermato dal fatto che, nella nota, é contenuta anche l'avvertenza, che costituisce la diffida prescritta dal citato art. 91, che, se si fosse lasciato trascorrere infruttuosamente il termine di otto giorni, l'Assessorato si sarebbe avvalso del potere sostitutivo del quale si é fatto cenno.

3. - Non si potrebbe obiettare che il Consiglio comunale, prescindendo dalla forma adottata, sarebbe stato, in sostanza, chiamato a deliberare sulla decadenza dalla carica, per la segnalata sussistenza di cause di ineleggibilità nei confronti di tre consiglieri comunali, compresa conseguentemente la decadenza dalla carica di sindaco, nei riguardi di colui che a tale ufficio era stato eletto.

La nota, infatti, era palesemente diretta a stimolare l'attività dell'organo elettivo in sede non giurisdizionale, poiché una deliberazione emessa in tale sede sarebbe stata incompatibile, anzi in antitesi, con lo scopo che l'Assessore intendeva perseguire. Quello cioè di avvalersi, nel caso di esito negativo della richiesta, del potere sostitutivo attribuito dalla legge, di carattere, com'é noto, esclusivamente amministrativo. Giacché tale potere non si sarebbe potuto più esercitare di fronte ad una deliberazione contenziosa, dato che una pronunzia del genere non sarebbe stata modificabile se non attraverso i mezzi di impugnazione preveduti dal sistema del contenzioso elettorale, adottato nella legislazione statale e in quella regionale.

Da quanto si é esposto si desume che la questione di costituzionalità non é stata ritualmente portata all'esame di questa Corte, non essendo stata sollevata, nel corso di un giudizio, nel senso sopra chiarito, davanti ad Autorità giurisdizionale.

4. - Né, per ritenere il contrario, può valere la dichiarazione che si legge nella deliberazione, che il Consiglio comunale si intendeva convocato in sede giurisdizionale, poiché non sussistono, come si é chiarito, elementi che giustifichino tale affermazione, e non può questa, per se stessa, ritenersi sufficiente per imprimere carattere giurisdizionale a un procedimento amministrativo.

Non ha neppure fondamento l'argomento addotto nella deliberazione nel senso che l'esame, in sede contenziosa, deriverebbe dal fatto che la deliberazione del Consiglio n. 36 del 20 novembre 1960, mediante la quale veniva convalidata, insieme alle altre, l'elezione a consigliere comunale del Niosi e la successiva deliberazione n. 4003, del 22 dicembre 1960, concernente la sua elezione a Sindaco, non avevano formato oggetto di rilievi da parte dell'organo provinciale di controllo.

La circostanza, invero, che l'intervento dell'Assessore regionale si sia verificato nonostante la convalida e l'approvazione dell'organo ordinario di controllo, non può far ritenere che il Consiglio non potesse più deliberare se non in sede contenziosa, se si considera che tale intervento, in base all'art. 91 del decreto regionale, ha carattere straordinario, non é sottoposto all'osservanza di termini, ed é autorizzato nel caso in cui gli organi dell'amministrazione dei Comuni omettano, sebbene previamente diffidati, o non siano in grado di compiere atti obbligatori per legge.

Si deve, pertanto, concludere che la questione di legittimità costituzionale é da dichiarare inammissibile.  

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 5, comma terzo, del Concordato fra la Santa Sede e l'Italia dell'11 febbraio 1929, sollevata con la deliberazione del Consiglio comunale di Ucria n. 13 del 21 marzo 1961.  

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 giugno 1962.

Giuseppe CAPPI - Gaspare AMBROSINI - Mario COSATTI - Francesco Pantaleo GABRIELI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Antonino PAPALDO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI

 

Depositata in cancelleria il 14 giugno 1962.