Sentenza n. 20 del 1962
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SENTENZA N. 20

ANNO 1962

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE 

composta dai signori giudici:

Avv. Giuseppe CAPPI, Presidente

Prof. Gaspare AMBROSINI

Dott. Mario COSATTI

Prof. Francesco Pantaleo GABRIELI

Prof. Giuseppe CASTELLI AVOLIO

Prof. Antonino PAPALDO

Prof. Nicola JAEGER

Prof. Giovanni CASSANDRO

Prof. Biagio PETROCELLI

Dott. Antonio MANCA

Prof. Aldo SANDULLI

Prof. Giuseppe BRANCA

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI,

ha pronunciato la seguente  

SENTENZA 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 49 della legge fallimentare (R.D. 16 marzo 1942, n. 267), promosso con ordinanza emessa il 29 ottobre 1957 dal Pretore di Venezia nel procedimento penale a carico di Viancini Mario, iscritta al n. 41 del Registro ordinanze 1961 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 83 del 1 aprile 1961.

Vista la dichiarazione di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udita nell'udienza pubblica del 7 febbraio 1962 la relazione del Giudice Nicola Jaeger;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Raffaello Bronzini, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.  

Ritenuto in fatto 

Nel procedimento penale promosso davanti al Pretore di Venezia a carico di Viancini Mario, imputato del reato previsto negli artt. 49 e 220 della legge sul fallimento (R.D. 16 marzo 1942, n. 267), per essere espatriato nel Messico senza autorizzazione del giudice delegato al fallimento di una società per azioni, della quale esso Viancini era amministratore unico, il Pretore, accogliendo parzialmente una istanza del difensore dell'imputato, proponeva la questione di legittimità costituzionale dell'art. 49 della legge fallimentare, in riferimento alle norme contenute negli articoli 13 e 16 della Costituzione.

Nella propria ordinanza, pronunciata all'udienza del 29 ottobre 1957, il Pretore osservava che la questione di legittimità concerneva la norma della cui violazione l'imputato era accusato e che essa non appariva manifestamente infondata, in quanto "la sanzione dell'obbligo di residenza del fallito non viene devoluta al magistrato, che potrebbe provvedere in merito caso per caso in virtù dei poteri conferiti dall'ordinamento vigente all'Autorità giudiziaria; bensì stabilita da una norma di carattere generale, la quale non appare ispirata né ai motivi di sanità né ai motivi di sicurezza di cui all'art. 16 della Costituzione".

La notificazione dell'ordinanza al Presidente del Consiglio dei Ministri e la sua comunicazione ai Presidenti delle due Camere del Parlamento subivano notevoli ritardi per talune irregolarità procedurali, tanto che l'ordinanza stessa poteva essere pubblicata, per disposizione del Presidente della Corte costituzionale, nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica solamente il 1 aprile 1961, n. 83.

Non si é avuta costituzione di parti private; é intervenuto, invece, il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso, come per legge, dall'Avvocatura generale dello Stato.

Questa ha concluso, nell'atto di intervento depositato in cancelleria, perché la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, infondata: inammissibile, perché nel caso in esame il fallito imputato non soltanto si era allontanato dalla propria residenza, ma era addirittura espatriato all'estero (nel Messico), così che il fatto avrebbe dovuto essere inquadrato nel precetto sancito dall'ultima parte dell'art. 16 della Costituzione; infondata, perché il divieto dell'art. 49 della legge fallimentare é inscindibilmente connesso al provvedimento giudiziale concretatosi nella dichiarazione di fallimento e perché esso appare giustificato dagli scopi pubblicistici della procedura fallimentare, e, concernendo anche l'interesse dell'ordine pubblico, può dirsi ispirato a quei motivi di sicurezza intesi lato sensu richiamati nell'art. 16 della Costituzione.

Tali argomenti sono stati, poi, esposti più ampiamente dall'Avvocatura generale dello Stato in una memoria depositata il 25 gennaio 1962.  

Considerato in diritto 

1. - La eccezione di inammissibilità della questione di legittimità costituzionale proposta dal Pretore di Venezia formava oggetto di una specifica conclusione formulata nell'atto di intervento della Avvocatura generale dello Stato, ma non é stata riprodotta nella memoria successiva; comunque essa non può essere accolta.

Risulta dalla ordinanza del Pretore e dagli atti del processo principale che il Viancini era imputato del reato di cui agli artt. 49 e 220 del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, e che il giudice ha proposto il dubbio sulla compatibilità fra la norma contenuta nell'art. 49 e quelle degli artt. 13 e 16 della Costituzione. Nessun principio imponeva al giudice stesso di specificare in base a quale comma dell'uno o dell'altro articolo della Costituzione egli dubitasse della legittimità costituzionale del precetto posto nella legge fallimentare e, in particolare, di inquadrare il fatto nell'ultima parte dell'art. 16, posto che l'imputato risultava espatriato nel Messico.

Si deve, pertanto, passare all'esame della fondatezza della questione proposta in riferimento alla norma dell'art. 16 della Costituzione, la sola meritevole di considerazione ad avviso della Corte, poiché l'art. 13 regola una materia diversa.

2. - Il giudice del processo principale ha ritenuto che la questione non fosse manifestamente infondata, perché l'obbligo di residenza imposto al fallito non discende da una decisione giudiziale, ma é stabilito da una norma di carattere generale, che non appare ispirata né a motivi di sanità, né a motivi di sicurezza. Egli sembra interpretare la norma contenuta nell'art. 16 della Costituzione nel senso che, al di fuori di tali motivi, la legge ordinaria non possa porre alcuna limitazione alla libertà di circolazione e di soggiorno dei cittadini.

Se così fosse, però, dovrebbero considerarsi illegittime costituzionalmente numerose disposizioni, che limitano la libertà di circolazione dei cittadini in relazione a speciali situazioni o rapporti in cui essi si trovano ad esempio perché tenuti ad una prestazione di collaborazione ad un organo pubblico, dalle quali situazioni o dai quali rapporti derivi anche un obbligo per essi di rimanere, per un tempo più o meno lungo, a disposizione dell'organo stesso.

3. - L'osservazione contenuta nell'ordinanza, che il potere di provvedere in merito all'obbligo di residenza del fallito non é devoluto al magistrato, é esatta solo formalmente. Se é vero, infatti, che tale obbligo deriva, come conseguenza necessaria ex lege, dalla dichiarazione di fallimento, non si può omettere di considerare anzitutto che tale dichiarazione avviene mediante una sentenza del Tribunale, che accerta lo stato di insolvenza dell'impresa, e in secondo luogo che l'obbligo in esame é posto dalla legge nei termini seguenti: "Il fallito non può allontanarsi dalla sua residenza senza permesso del giudice delegato" (art. 49, primo comma, R.D. 16 marzo 1942, n. 267).

Non é esatto, quindi, considerare sottratto al magistrato il potere di disporre in tema di libertà di circolazione del fallito. L'organo giurisdizionale interviene in diversi tempi: prima, all'atto di accertare la sussistenza dei presupposti della dichiarazione di fallimento, alla quale conseguirà ex lege l'obbligo della residenza; poi, in occasione degli eventuali gravami contro la sentenza dichiarativa; infine, e in qualunque fase della procedura fallimentare, per concedere o rifiutare al fallito il permesso di allontanarsi dalla sua residenza. In base a una disposizione di ordine generale (art. 26 R.D. citato), contro il decreto del giudice delegato il fallito può proporre reclamo al Tribunale, con che viene assicurata allo interessato anche la garanzia di un riesame di merito della sua richiesta.

La persistenza dell'obbligo del fallito di non allontanarsi dalla sua residenza é, pertanto, una diretta conseguenza dell'apprezzamento compiuto dal giudice delegato (e, in sede di gravame, dal Tribunale) dei motivi, i quali rendono necessaria, ai fini di giustizia, la permanenza di lui a disposizione degli organi del fallimento: apprezzamento, che può anche essere diverso a seconda delle diverse fasi della procedura concorsuale, ma che solo gli organi preposti al fallimento sono in grado di compiere nel modo migliore.

4. - Che la presenza del fallito, o quanto meno la sua disponibilità immediata ad ogni invito del giudice delegato o del curatore, costituisca una condizione indispensabile per il migliore espletamento degli atti del procedimento concorsuale, é un dato che non ha bisogno di dimostrazione. La storia stessa dell'istituto, che é sorto come un procedimento di carattere essenzialmente penale, o quanto meno "di stato", e che ancora oggi ha quale primo effetto una profonda modificazione dello status dell'imprenditore fallito, la cui ridotta capacità negoziale costituisce la più efficace garanzia di attuazione e conservazione della par condicio creditorum, conferma che quella necessità venne avvertita fin dai primi legislatori in materia.

Inizialmente il fallito era quasi sempre privato della libertà personale, essendo considerato come reato il solo fatto dell'insolvenza e mancando ogni mezzo efficace per raggiungerlo se riusciva a sottrarsi ai creditori e alla giustizia. Oggi si richiede soltanto che egli si tenga a disposizione degli organi preposti al fallimento, sempre che non ricorrano i casi in cui é previsto il mandato di cattura obbligatorio o facoltativo; e l'esperienza dimostra che tali organi sono sempre più facilmente propensi alla concessione dei permessi di allontanamento temporaneo, e persino di trasferimento di residenza, in relazione alla sempre maggiore facilità delle comunicazioni, dei mezzi di trasporto e delle misure di repressione nel caso di fuga.

Tuttavia é innegabile che, soprattutto in talune fasi del procedimento concorsuale, dalla compilazione dell'inventario all'accertamento del passivo e dei diritti reali mobiliari dei terzi, dalle impugnazioni all'esercizio di azioni revocatorie, di rivendicazione, restituzione e separazione, l'attività del curatore e la vigilanza dell'ufficio possono esplicarsi con ben maggiore efficacia e successo se essi dispongono della collaborazione, spontanea o forzata che sia, dell'imprenditore fallito.

La norma dell'art. 49 della legge sul fallimento, della cui legittimità costituzionale si discute, non ha, quindi, neppure indirettamente lo scopo di limitare un diritto di libertà; essa ha funzione strumentale in relazione ai fini assegnati ai procedimenti concorsuali e impone al fallito limitazioni analoghe a quelle previste in quei processi concernenti lo stato delle persone, nei quali la persona é contemporaneamente soggetto del processo e mezzo necessario perché questo possa conseguire i propri fini.

Il controllo continuativo del giudice delegato e del Tribunale sulla persistenza delle ragioni che rendono necessaria la presenza del fallito, controllo che questi può in ogni momento provocare, chiedendo al giudice i permessi consentiti dalla legge, costituisce sufficiente garanzia che la limitazione ai movimenti del fallito sia contenuta entro i termini segnati dalle esigenze del migliore risultato del procedimento concorsuale.

Pertanto, la norma denunciata non può essere considerata in contrasto con i principi contenuti nell'art. 16 della Costituzione, che é d'altronde il solo invocabile nella questione.  

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE 

respinge la eccezione preliminare proposta dall'Avvocatura generale dello Stato;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 49 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, in riferimento alle norme contenute negli artt. 13 e 16 della Costituzione.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 marzo 1962.

Giuseppe CAPPI - Gaspare AMBROSINI - Mario COSATTI - Francesco Pantaleo GABRIELI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Antonino PAPALDO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI

 

Depositata in cancelleria il 16 marzo 1962.