Sentenza n. 12 del 1961

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SENTENZA N. 12

 

ANNO 1961

 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE 

 

composta dai signori giudici:

 

Avv. Giuseppe CAPPI, Presidente

 

Prof. Gaspare AMBROSINI

 

Dott. Mario COSATTI

 

Prof. Francesco Pantaleo GABRIELI

 

Prof. Giuseppe CASTELLI AVOLIO

 

Prof. Antonino PAPALDO

 

Prof. Nicola JAEGER

 

Prof. Giovanni CASSANDRO

 

Prof. Biagio PETROCELLI

 

Dott. Antonio MANCA

 

Prof. Aldo SANDULLI

 

Prof. Giuseppe BRANCA

 

Prof. Michele FRAGALI

 

Prof. Costantino MORTATI,

 

ha pronunciato la seguente  

 

SENTENZA 

 

nel giudizio di legittimità costituzionale del D.P.R. 27 dicembre 1952, n. 3679, promosso con ordinanza emessa il 26 febbraio 1960 dal Tribunale di Potenza nel procedimento civile vertente tra l'Arcivescovo di Napoli, Card. Alfonso Castaldo, nella sua qualità di titolare e rappresentante della Mensa arcivescovile di Napoli, la Sezione speciale per la riforma fondiaria dell'Ente per lo sviluppo della irrigazione e la trasformazione fondiaria in Puglia e Lucania e il Ministero dell'agricoltura e foreste, iscritta al n. 43 del Registro ordinanze 1960 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 112 del 7 maggio 1960.

 

Udita nell'udienza pubblica del 1 febbraio 1961 la relazione del Giudice Nicola Jaeger;

 

uditi gli avvocati Aldo Dedin e Michele Giorgianni, per l'Arcivescovo di Napoli, e il sostituto avvocato generale dello Stato Francesco Agrò, per l'Ente riforma e il Ministero dell'agricoltura e foreste.  

 

Ritenuto in fatto 

 

Con atto di citazione notificato il 28 giugno 1958, l'Arcivescovo di Napoli, Card. Alfonso Castaldo, nella sua dichiarata qualità di titolare e rappresentante della Mensa arcivescovile di Napoli, conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Potenza la Sezione speciale per la riforma fondiaria dell'Ente per lo sviluppo della irrigazione e la trasformazione fondiaria in Puglia e Lucania, nonché il Ministero dell'agricoltura e foreste.

 

L'attore chiedeva che fosse dichiarata erronea, abusiva e nulla la espropriazione dei terreni di una tenuta della estensione di circa 1750 ettari, in Montalbano Jonico, disposta con D.P.R. 27 dicembre 1952, n. 3679, nei confronti della Società agricola meridionale Carmine De Martino e C.; affermava che la tenuta stessa non apparteneva a tale Società, ma alla Mensa arcivescovile attrice; chiedeva, pertanto, la condanna dell'Ente di riforma, del Ministero dell'agricoltura e foreste e di qualsiasi altro detentore abusivo alla restituzione di tutti i terreni occupati abusivamente, e in subordine al pagamento dell'equivalente economico, nonché dei danni derivati dalla espropriazione e dalla occupazione, danni da liquidare in separata sede.

 

A fondamento delle proprie domande l'attore richiamava quanto era stato deciso con una sentenza 20 luglio-30 agosto 1956 della Corte di appello di Napoli, passata in giudicato, pronunciata in contraddittorio delle Società S.A.I.M. (Società agricola industriale meridionale) e S.A.I.S. (Società agricola industriale Scanzano), con la quale sentenza era stata dichiarata l'inefficacia della concessione enfiteutica, interceduta con atto 16 gennaio 1943 fra l'Arcivescovo pro tempore di Napoli e la Società agricola industriale Carmine De Martino e C., concernente la tenuta suddetta, e ciò per non essere stato preceduto il contratto dalle autorizzazioni amministrative prescritte dalla legge.

 

La causa veniva ampiamente discussa fra le parti, le quali prendevano le conclusioni seguenti: l'attore per l'accoglimento delle domande proposte in citazione, previa, se del caso, la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, e l'Avvocatura distrettuale dello Stato, costituita in rappresentanza del Ministero agricoltura e foreste e della Sezione speciale dell'Ente di riforma, perché fosse dichiarata gradatamente la improponibilità, la inammissibilità o, comunque, la infondatezza delle domande stesse.

 

Con ordinanza in data 26 febbraio 1960 il Tribunale di Potenza, sospeso il giudizio in corso, disponeva la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, formulando la questione di legittimità costituzionale da risolvere nei seguenti termini testuali: " se il D.P.R. 27 dicembre 1952, n. 3679, abbia violato i criteri cui é informata la legge 21 ottobre 1950, n. 841, in quanto diretta contro soggetto privo - per giudicato successivamente intervenuto - in relazione al terreno espropriato, di diritto enfiteutico".

 

In tale ordinanza il Tribunale premette, in relazione alla sentenza della Corte di appello di Napoli prodotta in giudizio dall'attore, che "nel pensiero espresso dalla Corte napoletana il concetto di inefficacia riferito al contratto enfiteutico appare assunto nella sua propria significazione tecnico-giuridica di fattispecie negoziale perfetta ma improduttiva medio tempore di effetti giuridici (negozio sospensivamente condizionato e sottoposto a termine iniziale), di modo che é da inferirne la mancata costituzione del diritto reale enfiteutico in favore della Società concessionaria".

 

Dichiarate manifestamente infondate alcune questioni proposte dall'attore, nonché l'eccezione opposta dall'Avvocatura dello Stato sulla base dei dati catastali recanti l'intestazione dei terreni sotto la ditta S.A.I.M. quale livellaria dell'Arcivescovo di Napoli, il Tribunale osserva che deve rilevarsi di ufficio "la questione relativa alla illegittimità costituzionale del cennato decreto presidenziale per eccesso di esso dai limiti tracciati dalla legge delegante, giacché in violazione del principio enunciato dall'art. 4 della legge n. 841 del 1950, che detta dover l'espropriazione fondiaria seguire nei confronti del proprietario e, come nel caso, dell'enfiteuta, essa sarebbe stata diretta contro soggetto (S.A.I.M.) sfornito di verun diritto enfiteutico sui fondi espropriati come é risultato accertato dalla citata sentenza della Corte di appello di Napoli, la cui pronuncia relativa alla inefficacia del contratto di enfiteusi, retroagendo ex tunc, ha fatto venir meno la titolarità del diritto della S.A.I.M.".

 

L'ordinanza del Tribunale di Potenza fu notificata alle parti in causa e al Presidente del Consiglio dei Ministri il 26 marzo 1960, comunicata ai Presidenti dei due rami del Parlamento e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 112 del 7 maggio 1960.

 

Il 12 aprile 1960 si costituì in giudizio il Cardinale Arcivescovo di Napoli, nella qualità di titolare e rappresentante della Mensa arcivescovile di Napoli, esponendo nelle proprie deduzioni che il bene ora espropriato pervenne all'Arcivescovo pro tempore di Napoli, non come persona fisica, ma come rappresentante della Mensa arcivescovile, e cioè come titolare di un beneficio ecclesiastico, in qualità di erede universale dell'unico cespite ereditario del defunto Onofrio Ferrara, il quale aveva incaricato l'Arcivescovo di destinare la tenuta alla fondazione di un ospizio per poveri, con speciale reparto per gli artisti caduti in miseria. Senonché, l'Arcivescovo del tempo, Cardinale Ascalesi, dopo aver accettato l'eredità con beneficio d'inventario e avanzata domanda al Capo dello Stato per l'accettazione, ed al competente Ministero per l'erezione in ente morale dell'opera pia voluta dal testatore, nelle more di tali adempimenti, superando gravi difficoltà determinate da una serie di giudizi promossi da parenti del de cuius e da una pesante situazione debitoria, provvide al ricovero di un notevole numero di artisti poveri, dapprima adibendo all'uopo una proprietà della Mensa, e poi acquistando una villa ove sorge attualmente l'ospizio "Barone Ferrara".

 

Successivamente, lo stesso Cardinale Ascalesi con atto del 16 gennaio 1943 concesse la tenuta in enfiteusi alla Società in accomandita agricola industriale meridionale, senza però le necessarie autorizzazioni canoniche e governative. La conseguente nullità del contratto fu poi eccepita dal suo successore Cardinale Mimmi con atto del 30 dicembre 1952, in accoglimento del quale dal Tribunale di Napoli fu emanata una decisione nel 1954 in contraddittorio con la S.A.I.M. (nella quale s'era trasformata l'originaria Società in accomandita), la S.A.I.S. (avente causa dalla S.A.I.M.), l'Ente Puglia e Lucania, e il Ministero dell'agricoltura e foreste. Tale sentenza confermata nel 1956 da quella, passata in giudicato, della Corte di appello di Napoli (prodotta nel pendente giudizio di merito) ha, infatti, dichiarato la inefficacia del contratto enfiteutico, condannando la S.A.I.S. al rilascio della tenuta in favore dell'Arcivescovo.

 

D'altro canto, già in data antecedente a quella dell'atto introduttivo del giudizio di primo grado proposto dal suo successore (30 dicembre 1952), il Cardinale Ascalesi, avuto sentore che l'Ente di riforma aveva predisposto un piano di espropriazione della tenuta Scanzano, con esposti del 12 gennaio e 16 febbraio 1952, aveva avvertito l'Ente che la tenuta non apparteneva alla S.A.I.M., e, con atto notificato il 25 febbraio 1952, avverso la predisposizione del piano aveva proposto al Consiglio di Stato un ricorso, che fu sospeso, come ogni altro avente ad oggetto decreti di esproprio per la riforma fondiaria.

 

Nel richiamare tali precedenti la difesa del Cardinale Castaldo pone in rilievo che le due sentenze del Tribunale e della Corte d'appello di Napoli, ritenendo radicalmente inefficace il contratto enfiteutico, respinsero l'eccezione dell'Avvocatura dello Stato secondo cui, invece, il contratto, per mancanza dell'autorizzazione, doveva ritenersi semplicemente annullabile e sottoposto al termine quinquennale di prescrizione. Si assume, inoltre, che avendo le suddette sentenze ritenuta la incompetenza territoriale in ordine alla conseguente domanda di riconsegna dei beni illegittimamente espropriati, l'Arcivescovo di Napoli ha successivamente adito il Tribunale di Potenza per sentire dichiarare nulla ed abusiva l'espropriazione della tenuta, nonché condannare l'Ente riforma alla restituzione.

 

Nel merito si deduce:

 

1) che, come ha ritenuto il Tribunale di Potenza, é irrilevante il fatto che la tenuta fosse intestata in catasto sotto la ditta S.A.I.M., in quanto i relativi dati non possono ritenersi vincolanti nel procedimento di espropriazione per riforma fondiaria;

 

2) che, essendo stato erede l'Arcivescovo di Napoli, quale titolare della Mensa vescovile, ed essendo l'enfiteusi un atto eccedente l'ordinaria amministrazione, come tale considerato dall'art. 13 della legge 27 maggio 1929, n. 848, occorreva all'uopo la necessaria autorizzazione per il precedente art. 12 della stessa legge. Stante il carattere imperativo della norma ivi contenuta, e non essendosi mai avuta, né richiesta, l'autorizzazione, ricorre l'applicabilità dell'art. 1418 Cod. civile.

 

D'altro canto, anche a voler distinguere tra inefficacia e nullità, il negozio privo di autorizzazione é affetto da inefficacia permanente, opponibile nei confronti di tutti;

 

3) a conferma si rileva che nel respingere un'eccezione sollevata dalla S.A.I.S. sul riflesso che essa era terza e di buona fede per aver trascritto a titolo oneroso il contratto di enfiteusi, la Corte di appello di Napoli ha affermato che l'inefficacia del primo trasferimento é opponibile, oltre che contro i diretti contraenti, anche contro i loro aventi causa, rimanendo esclusa "ogni limitazione soggettiva nell'ambito della declaratoria";

 

4) che tale inefficacia erga omnes é ancora più evidente nei confronti dell'Ente riforma e del Ministero dell'agricoltura e foreste, in quanto parti nel giudizio innanzi alla Corte napoletana;

 

5) che, per quanto possa apparire equivoca la dizione adottata nell'ordinanza (illegittimità del D.P.R. per la "espropriazione diretta contro soggetto privo, per giudicato successivamente intervenuto, di diritto enfiteutico"), é evidente che il giudizio non ha tolto efficacia al contratto enfiteutico, ma ha dichiarato una preesistente inefficacia;

 

6) che l'Ente riforma e il Ministero, per essere stati ripetutamente informati, prima che fosse emanato il decreto di scorporo, non possono considerarsi terzi in buona fede;

 

7) che, appartenendo la tenuta alla Mensa vescovile, non é di proprietà privata, e va esclusa dalla espropriazione.

 

Si conclude perché il decreto di esproprio sia dichiarato costituzionalmente illegittimo.

 

Anche l'Avvocatura generale dello Stato, costituitasi nell'interesse del Ministero dell'agricoltura e foreste e dell'Ente riforma, si richiama, nelle sue deduzioni depositate il 21 maggio 1960, ai precedenti giudizi innanzi al Tribunale e alla Corte d'appello di Napoli, nonché alle posizioni difensive assunte nel procedimento principale, nel quale é stata proposta la questione di legittimità.

 

Al riguardo fa presente che l'Arcivescovo, con l'ulteriore fine di negare all'Ente riforma il potere di espropriare i beni di cui é causa, e sul fondamento che la enfiteusi (come anche l'accettazione dell'eredità) non era stata preceduta dalle autorizzazioni ex artt. 9 e 12 della legge 1929, n. 848, ha impugnato il contratto enfiteutico, dopo oltre dieci anni, per sentirne dichiarare la nullità e ottenere la restituzione dei beni.

 

Un primo atto di citazione (30 dicembre 1952) fu notificato dopo la pubblicazione del piano particolareggiato nei confronti della S.A.I.M. e dell'Ente riforma; ed un secondo (30 gennaio 1953) - sempre dinanzi al Tribunale di Napoli - dopo la pubblicazione del decreto di scorporo fu notificato anche contro il Ministero dell'agricoltura e foreste.

 

Senonché il Tribunale, accogliendo un' eccezione pregiudiziale sollevata dall'Avvocatura dello Stato, dichiarava la propria incompetenza nei confronti dell'Ente e del Ministero e la competenza del Tribunale di Potenza secondo le norme del foro erariale. Nei confronti delle private Società convenute, il Tribunale si dichiarava, invece, competente; e, nel merito, ritenuto che l'Arcivescovo era erede quale rappresentante della Mensa vescovile, e prendendo atto che l'autorizzazione ad accettare l'eredità era stata richiesta, esprimeva l'avviso che, in pendenza del procedimento autorizzativo, il bene poteva essere alienato, in base all'art. 11 della cit. legge 1929, n. 848; data però la mancata autorizzazione ad atti eccedenti l'ordinaria amministrazione, dichiarava, ai sensi del successivo art. 12, il contratto enfiteutico privo di effetti nei confronti delle Società.

 

Avverso tale decisione l'Arcivescovo proponeva appello in quanto, pur essendo stato ivi riconosciuto che i due termini nullità ed inefficacia non erano tra loro dissimili, in modo equivoco si era ritenuto che la riscontrata inefficacia fosse relativa. A questo riguardo l'appellante, insistendo sulla assoluta nullità del contratto enfiteutico, faceva ancora una volta presente che l'autorizzazione ad accettare l'eredità era mancata ed il suo difetto non poteva comportare una inefficacia soltanto relativa del contratto enfiteutico, dato che il concedente non aveva la capacità giuridica di compiere un atto di disposizione (ma solo di conservazione) dei beni ereditari. Tutto ciò al fine di non limitare l'inefficacia alle Società, ma di estenderla pure nei confronti dei terzi (Ente di riforma e Ministero).

 

Senonché la Corte d'appello di Napoli - secondo l'Avvocatura - riconosceva l'inefficacia del contratto enfiteutico nei soli confronti delle Società, confermando per il resto la pronunzia di incompetenza, già resa in primo grado nei riguardi dell'Ente e del Ministero.

 

Nel giudizio innanzi al Tribunale di Potenza, iniziato dall'Arcivescovo allo scopo di far dichiarare nulla l'espropriazione sulla base dell'inefficacia del contratto enfiteutico, già dichiarata dalla Corte napoletana con sentenza passata in giudicato, l'Avvocatura dello Stato tra l'altro deduceva che si era proceduto all'esproprio tenendosi presente la consistenza della proprietà al 15 novembre 1949, e che a tale data risultava enfiteuta la S.A.I.M.; sosteneva, altresì, che l'accettazione dell'eredità era valida e il contratto enfiteutico, benché mancante di autorizzazione, non era nullo, ma solo annullabile.

 

Nell'attuale giudizio di costituzionalità l'Avvocatura generale:

 

1) fa cenno - senza tradurlo in espressa conclusione - ad un motivo di inammissibilità della questione costituzionale, osservando che nella specie non si tratta di un comune giudizio di rivendica a seguito di annullamento del titolo di acquisto derivativo nell'ambito del diritto privato, né di dare applicazione al principio resoluto jure dantis resolvitur et jus accipientis. Si tratta, invece, di giudicare se il procedimento espropriativo abbia ecceduto dai limiti della delega, e solo in tal caso sarebbe ammissibile il rinvio della questione alla Corte costituzionale; solo, cioè, ritenendo che la sentenza del 1956 della Corte napoletana - resa in causa Arcivescovo di Napoli contro le Società S.A.I.M. e S.A.I.S. - abbia modificato la situazione qual'essa era il 27 dicembre 1952, data del decreto di esproprio, in modo da alterare i presupposti di legittimità del provvedimento;

 

2) nel merito, - a giudizio dell'Avvocatura - una ipotesi del genere é da escludere in quanto la nozione di inefficacia di cui agli artt. 17 Cod. civ. e 12 legge 1929, n, 848, é da intendere nel senso della nullità relativa o addirittura dell'annullabilità, e non in quello della nullità assoluta o dell'inesistenza giuridica. Anzi, secondo la communis opinio della dottrina e della giurisprudenza, l'atto eccedente l'ordinaria amministrazione di un ente morale o di una istituzione ecclesiastica é meramente annullabile e la sentenza che disponga tale annullamento é di carattere costitutivo. In particolare, la sentenza della Corte di Napoli non può dar luogo ad un eccesso di delega sopravvenuto, e il Governo, come legislatore delegato (che come tale non può considerarsi " terzo avente causa"), ha correttamente fatto uso della delega nei confronti della S.A.I.M., che alla data dello scorporo era enfiteuta.

 

Il fatto sopravvenuto, dato dal giudicato della Corte napoletana, darebbe all'Arcivescovo soltanto il titolo a pretendere l'indennità di espropriazione;

 

3) essendo, infatti, l'espropriazione un modo originario di acquisto della proprietà - come, secondo l'Avvocatura, é pacificamente riconosciuto dai trattatisti - la validità dell'acquisto dell'espropriante non é subordinata all'esistenza del diritto dell'espropriato, per cui se anche questi non é il vero proprietario, l'espropriazione é valida, potendo il proprietario vero far valere soltanto i suoi diritti sull'indennità di espropriazione. Tale principio, essendo fondato non sulle caratteristiche e le finalità politiche del procedimento espropriativo, ma solo sulla natura giuridica dell'atto di apprensione del bene, vale pure per gli espropri della riforma fondiaria;

 

4) a fondamento di un diverso ordine di motivi, rileva che il giudicato della Corte napoletana non é opponibile alla pubblica Amministrazione, che fu estromessa fin dal giudizio di primo grado per incompetenza territoriale; e pone, quindi, in discussione quanto statuito in quella pronuncia. In particolare deduce:

 

a) essendo stata trascritta la qualità di enfiteuta della S.A.I.M. (ed avendo la trascrizione un valore diverso da quello dei dati catastali) non può il concedente fare questione contro i terzi che sulle risultanze dei libri immobiliari abbiano fondato il loro diritto (art. 2655 Cod. civ.);

 

b) dall'inosservanza degli artt. 17 Cod. civ. e 12 legge 1929, n. 848, deriva un'ipotesi di annullabilità soggetta al termine quinquennale di prescrizione;

 

c) tale ipotesi di annullabilità, peraltro, concretandosi in un mancato intervento dello Stato, attraverso i suoi organi competenti, a convalidare il contratto da cui é sorto il rapporto enfiteutico, non ricorrerebbe nella specie, dato che l'espressione più alta della volontà dello Stato, e cioè la legge, sarebbe intervenuta a prendere atto dell'acquisto della S.A.I.M., imprimendo, con ciò stesso, crisma di validità al titolo di essa Società;

 

d) sotto altro profilo, richiamandosi, fra l'altro, alla motivazione di una sentenza pronunziata tra l'Arcivescovo e i parenti del testatore, deduce che quest'ultimo intese istituire erede una persona fisica individuata attraverso l'ufficio di Arcivescovo, perché provvedesse ad impiegare, nel modo dal testatore stesso voluto, l'eredità, e non locupletare un beneficio ecclesiastico. Di conseguenza, essendo erede una persona fisica capace di agire, e non un ente ecclesiastico, non si richiedeva autorizzazione; e l'Arcivescovo validamente ereditò e validamente dispose del latifondo concedendolo in enfiteusi alla S.A.I.M., attuale espropriata.

 

Si conclude perché la questione di legittimità sia dichiarata priva di fondamento.

 

Nelle successive memorie, depositate nella cancelleria della Corte il 19 gennaio 1961, le parti hanno insistito nelle rispettive conclusioni.

 

La difesa dell'Arcivescovo di Napoli, dopo avere ricordato le circostanze, nelle quali era avvenuta l'apertura della successione ereditaria del barone Ferrara, le numerose cause iniziate dai congiunti di questi, le ragioni per le quali l'Arcivescovo del tempo si era indotto a concedere in enfiteusi la tenuta alla S.A.I.M. (avvenimenti bellici e incertezza dei rapporti), le inadempienze della Società, che provocarono l'azione promossa dinanzi al Tribunale e poi alla Corte di appello di Napoli, ribadisce le tesi già sostenute, richiamando numerosi precedenti desunti dalla giurisprudenza della Corte costituzionale. Si osserva anche, nella memoria, che l'Amministrazione si sarebbe limitata a riscontrare i soli registri catastali, mentre le erano state fatte ben due intimazioni con gli atti stragiudiziali del 12 gennaio e del 16 febbraio 1952, in seguito alle quali essa avrebbe potuto facilmente rilevare l'inesistenza del diritto della Società.

 

Si contesta, poi, la fondatezza della tesi sostenuta dall'Avvocatura generale dello Stato, secondo la quale la decisione della Corte di appello di Napoli, che dichiarò la invalidità dell'acquisto della Società agricola, avrebbe natura costitutiva, vale a dire avrebbe posto in essere uno strumento che "aliquid dat novi nello universo giuridico", modificando la situazione di appartenenza, quale essa appariva al momento dell'esercizio del potere delegato. La Corte di Napoli avrebbe, invece, emesso una pronuncia meramente dichiarativa, né la inefficacia si potrebbe equiparare alla annullabilità: ed essendo stati presenti nel giudizio sia il Ministero dell'agricoltura, sia l'Ente di riforma, la decisione, ormai passata in giudicato, deve essere rispettata anche dall'Amministrazione.

 

Si contesta, infine, la validità degli altri argomenti addotti dall'Avvocatura generale dello Stato, quali la tesi che la inefficacia della concessione del fondo in enfiteusi per difetto delle autorizzazioni prescritte sarebbe stata sanata proprio per effetto del provvedimento di espropriazione, avente forza di legge; il carattere di modo di acquisto originario della proprietà, da riconoscere ad ogni atto di espropriazione, onde diverrebbe irrilevante il fatto che esso fosse posto in essere nei confronti del titolare del diritto reale sul bene espropriato, ovvero di altri; il principio della così detta "pubblicità sanante", in base al quale sarebbe determinante il fatto che l'atto di acquisto enfiteutico era stato trascritto.

 

La difesa dell'Arcivescovo di Napoli ribadisce, infine, che questi deve essere considerato parte in causa non quale persona fisica, ma quale rappresentante della Mensa arcivescovile istituita erede dal barone Ferrara, come risulta dagli atti del giudizio principale; e che, ove si potessero ridiscutere le questioni riguardanti la validità degli atti di disposizione compiuti a suo tempo sui beni ereditari, la Corte non potrebbe non dichiarare la nullità di tali atti, e specialmente di quello di concessione dell'enfiteusi.

 

Nella memoria depositata dall'Avvocatura generale dello Stato si espone, al contrario, come punto fermo e indiscutibile, che nel sistema delle leggi di riforma fondiaria non é possibile che si diano zone di franchigia o, comunque, di immunità propter rem litigiosam, a causa di contestazioni sul titolo. Si prospettano, poi, diverse ipotesi: quella della mera apparenza del diritto, quella della nullità relativa all'atto di acquisto dell'espropriato e quella della nullità originaria, assoluta ed insanabile, osservando che nelle due prime la soluzione sarebbe chiara, mentre nella terza la soluzione potrebbe essere molteplice, giacché - in definitiva -, come ha insegnato la Cassazione in una sentenza del 1946 in tema di donazione da parte di persona incapace, l'obbligo di cui all'art. 2655 Cod. civ. a qualche cosa deve pure servire. Ciò premesso, l'Avvocatura generale dichiara essere ovvia verità che l'inefficacia di cui discorrono l'art. 17 Cod. civ. e l'art. 12 della legge concordataria é una nullità relativa, anzi, probabilmente, un semplice caso di annullabilità; e che, per conseguenza, enfiteuta del latifondo in questione (e, quindi, legittimata all'esproprio) alla data critica del 15 novembre 1949, alla data del decreto di esproprio (27 dicembre 1952) ed alla data di scadenza della delega legislativa (31 dicembre 1952) era soltanto la S.A.I.M., dovendosi, invece, riconoscere all'Arcivescovo a quell'epoca una mera facoltà di agire, che, ovviamente, non poteva formare oggetto di espropriazione. Conclude contestando che possa configurarsi un eccesso di delega sopravvenuto, in funzione dell'avvenuta eliminazione dall'universo giuridico di un presupposto del legittimo esercizio del potere legislativo delegato, eliminazione posteriore all'avvenuta consumazione del potere stesso, e sostenendo, fra l'altro, che erroneamente si é trascurata l'eccezione di prescrizione quinquennale.

 

Nella discussione in pubblica udienza i difensori delle parti hanno ribadito le rispettive tesi.  

 

Considerato in diritto

 

Dalla ordinanza del Tribunale di Potenza risulta che l'Arcivescovo di Napoli, nella qualità dichiarata di rappresentante della Mensa arcivescovile, aveva chiesto che fosse dichiarata illegittima la espropriazione dei terreni disposta con il D.P.R. 27 dicembre 1952, n. 3679, in quanto diretta contro un soggetto privo di diritto enfiteutico in relazione al terreno espropriato; solo tale questione, e non le altre, alle quali la difesa dell'Ente di riforma e del Ministero dell'agricoltura e delle foreste vorrebbe estendere l'esame della Corte, costituisce l'oggetto del giudizio demandato a questa.

 

D'altra parte, il Tribunale si é espresso negativamente anche sul punto, se la Società agricola meridionale Carmine De Martino e C., nei confronti della quale il decreto presidenziale citato aveva disposto la espropriazione, fosse titolare del diritto reale (enfiteutico) presupposto dal decreto stesso. E ciò ha fatto sulla base della sentenza 20 luglio-30 agosto 1956 della Corte di appello di Napoli, passata in giudicato, che il Tribunale di Potenza interpreta nel senso che sia "da inferirne la mancata costituzione del diritto reale enfiteutico in favore della Società concessionaria", perché "nel pensiero espresso dalla Corte napoletana il concetto di inefficacia riferito al contratto enfiteutico appare assunto nella sua propria significazione tecnico-giuridica di fattispecie negoziale perfetta ma improduttiva medio tempore di effetti giuridici (negozio sospensivamente condizionato e sottoposto a termine iniziale)".

 

É stato rilevato che il Tribunale, nella formulazione del quesito sottoposto alla Corte costituzionale, ha parlato di espropriazione "contro soggetto privo, per giudicato successivamente intervenuto, in relazione al terreno espropriato, di diritto enfiteutico", e che l'inciso "per giudicato successivamente intervenuto" potrebbe sembrare di dubbio significato; ma nella stessa ordinanza si legge che quanto sopra "é risultato accertato dalla citata sentenza della Corte di appello di Napoli, la cui pronuncia relativa alla inefficacia del contratto di enfiteusi, retroagendo ex tunc, ha fatto venir meno la titolarità del diritto della S.A,I.M.". Di conseguenza sembra chiaro che il Tribunale ha riconosciuto la natura dichiarativa, e non costitutiva, di tale sentenza, sul presupposto che questa abbia solo accertato, naturalmente in tempo successivo, quale fosse sin dall'inizio la condizione giuridica del rapporto in esame.

 

La difesa dell'Ente di riforma e del Ministero dell'agricoltura e delle foreste contesta la natura dichiarativa della sentenza stessa, e in particolare la sua efficacia erga omnes, aggiungendo che i propri rappresentati, già convenuti nel primo processo davanti al Tribunale di Napoli, erano stati estromessi dal giudizio per motivi di incompetenza territoriale-funzionale. Non contesta però che si sia formato il giudicato fra i due soggetti del rapporto di concessione enfiteutica (Mensa arcivescovile e Società concessionaria); e ciò sembra sufficiente ai fini del giudizio, perché una sentenza dichiarativa concernente un rapporto fra più parti ha effetti anche nei confronti dei terzi, in quanto costituisca cosa giudicata fra i soggetti del rapporto controverso. Tale efficacia é stata ritenuta, come si é notato, ai fini della questione in esame, dal Tribunale di Potenza nella ordinanza di rimessione degli atti alla Corte costituzionale, pronunciata in un processo nel quale fra l'altro erano convenuti e costituiti anche l'Ente di riforma e il Ministero; e, del resto, il punto concernente l'efficacia stessa rientra nella competenza del giudice di merito, quale presupposto del giudizio di legittimità costituzionale, come é stato ripetutamente ritenuto da questa Corte (v. fra le altre, le ordinanze n. 77 del 16 maggio 1956 e n. 69 del 22 dicembre 1959).

 

Le altre considerazioni, sulle quali si diffonde la difesa dell'Ente e del Ministero, hanno piuttosto carattere di segnalazione di inconvenienti, che di argomenti validi per la risoluzione di una questione giuridica. Nessuno può contestare che il metodo e i termini prescritti dalla legge per l'attuazione della riforma fondiaria, da un lato, e la esistenza delle garanzie previste a salvaguardia dei diritti di soggetti estranei all'ambito della riforma, dall'altro, possano aver messo talvolta in difficoltà le Autorità amministrative preposte a compiti tanto delicati e difficili.

 

Tuttavia, la considerazione di tali inconvenienti non può indurre la Corte ad ammettere le estreme conseguenze, alle quali si giungerebbe accogliendo le tesi sostenute dall'Avvocatura dello Stato. La Corte ritiene di dover riaffermare la opinione, già espressa ripetutamente, che le risultanze dei dati catastali non possono considerarsi decisive ai finì della prova dei diritti reali in materia di espropriazione fondiaria.

 

Nella specie che forma oggetto del presente giudizio non pare che gli organi amministrativi preposti alla riforma fondiaria abbiano svolto le indagini per accertare chi fosse titolare del diritto reale, oggetto del procedimento di espropriazione. A quanto risulta dagli atti, essi si sono limitati a rilevare i dati catastali e forse anche a ispezionare i registri immobiliari; ma é stato pure dimostrato ex adverso che più volte era stata richiamata l'attenzione di tali organi sulle circostanze rilevanti ai finì della legittimità del provvedimento in preparazione: erano stati presentati più esposti, era stato notificato un ricorso al Consiglio di Stato contro la predisposizione del piano di espropriazione e - a quanto é stato affermato dal difensore della Mensa arcivescovile e non contestato dalla difesa dell'Ente di riforma - gli stessi motivi di opposizione sarebbero stati fatti valere davanti alla Commissione parlamentare, i cui membri, all'unanimità meno uno, li avrebbero riconosciuti fondati.

 

Si aggiunga che, proprio in una specie come la presente, nessuno meglio che l'Amministrazione avrebbe potuto agevolmente accertare se l'Arcivescovo di Napoli avesse ottenuto o no dall'Autorità governativa le autorizzazioni richieste dagli artt. 9, 10 e 13 della legge 27 maggio 1929, n. 848, per l'accettazione della eredità Ferrara e per la stipulazione del contratto di enfiteusi, e dedurne se la Società concessionaria o altri soggetti fossero titolari di un diritto reale passibile di espropriazione.

 

Anche in vista degli aspetti particolari ora rilevati, concernenti la condizione giuridica dei beni cui si riferisce il presente giudizio e i ripetuti atti di diffida e di opposizione notificati tempestivamente alla pubblica Amministrazione, non può ritenersi giustificato il richiamo alle difficoltà che questa ha frequentemente incontrato nel procedere alla riforma fondiaria; né argomenti simili possono essere addotti efficacemente a dimostrazione della legittimità del provvedimento impugnato.  

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE 

 

dichiara la illegittimità costituzionale del D.P.R. 27 dicembre 1952, n. 3679, in relazione all'art. 4 della legge 21 ottobre 1950, n. 841, e alla tabella allegata, e in riferimento alle norme contenute negli artt. 76 e 77, primo comma, della Costituzione, in quanto l'espropriazione é stata diretta contro soggetto privo di diritto enfiteutico in relazione ai terreni espropriati.  

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 marzo 1961.

 

Giuseppe CAPPI - Gaspare AMBROSINI - Mario COSATTI - Francesco Pantaleo GABRIELI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Antonino PAPALDO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI

 

 

Depositata in cancelleria il 29 marzo 1961.