Sentenza n. 27 del 1959
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SENTENZA N. 27

ANNO 1959

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Dott. Gaetano AZZARITI, Presidente

Avv. Giuseppe CAPPI

Prof. Tomaso PERASSI

Prof. Gaspare AMBROSINI

Dott. Mario COSATTI

Prof. Francesco PANTALEO GABRIELI

Prof. Giuseppe CASTELLI AVOLIO

Prof. Antonino PAPALDO

Prof. Giovanni CASSANDRO

Prof. Biagio PETROCELLI

Dott. Antonio MANCA

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 5 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, sulle misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità, promosso con ordinanza del 1 marzo 1958 del Tribunale di Lucca nel procedimento penale a carico di Ceragioli Anna, iscritta al n. 16 del Registro ordinanze 1958 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 101 del 26 aprile 1958.

Vista la dichiarazione di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udita nell'udienza pubblica del 18 febbraio 1959 la relazione del Giudice Biagio Petrocelli;

uditi il vice avvocato generale dello Stato Marcello Frattini e l'avv. Sandro Diambrini Palazzi.

 

Ritenuto in fatto

 

Nel procedimento a carico di Ceragioli Anna, proposta dal Questore di Lucca per la sottoposizione a sorveglianza speciale, il Tribunale di Lucca, d'ufficio, con ordinanza del 1 marzo 1958, riteneva non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 5 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, sulle misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità in riferimento agli artt. 2 e 17 della Costituzione, nella parte che concerne gli obblighi imposti al sorvegliato speciale: a) di "non associarsi abitualmente alle persone che hanno subito condanne e sono sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza"; b) di "non partecipare a pubbliche riunioni".

Secondo il Tribunale, mentre le altre prescrizioni dell'art. 5 (fissazione della dimora, divieto di allontanarsene senza dare avviso alla P.S., divieto di rincasare e di uscire fuori di ore stabilite, ecc.) devono dirsi costituzionalmente legittime, rientrando nel lato concetto di "sicurezza" fissato dalla Corte costituzionale con la sua sentenza n. 2 del 1956, quelle impugnate sarebbero in contrasto con gli artt. 2 e 17 della Costituzione. Il divieto di associarsi a certe persone importerebbe che il sorvegliato non possa praticarle né coltivare con esse rapporti anche di innocua amicizia; e in tal caso il divieto medesimo verrebbe a ledere un diritto del soggetto afferente alla sfera dei rapporti sentimentali, diritto che se pure non appare esplicitamente tutelato dalla Costituzione, tuttavia é tale da potersi comprendere, secondo il Tribunale, tra quei diritti inviolabili dell'uomo che nell'art. 2 la Costituzione genericamente riconosce e garantisce. Quanto al divieto di non partecipare a pubbliche riunioni, il Tribunale vi ravvisa una violazione dell'art. 17 della Costituzione, che riconosce a tutti i cittadini il diritto di riunione, intesa questa come convegno precario e volontario di due o più persone in un luogo determinato per un fine prestabilito. La stessa disciplina prevista dal precetto costituzionale per le riunioni in luogo pubblico o aperto al pubblico importa la esistenza del diritto del singolo di parteciparvi, nonché la legittimità delle riunioni in privato. Si avrebbe così la lesione di un diritto costituzionalmente garantito, tanto più rilevante in quanto si può avere riunione pubblica anche in luogo privato, tenuto presente che il carattere di riunione pubblica deriva non soltanto dalla qualità del luogo in cui é tenuta, ma anche dall'oggetto di essa, dal numero dei partecipanti e dal fine che si persegue. Il Tribunale osserva inoltre che il divieto imposto al sorvegliato speciale può incidere anche sull'esercizio di altri diritti di libertà (attività di culto, politiche, ecc.) per le quali il riunirsi é talora essenziale, e che esso non si concilierebbe logicamente con la possibilità che il sorvegliato si trattenga in osterie, bettole, ecc., purché non abitualmente.

L'ordinanza di rimessione degli atti a questa Corte venne regolarmente notificata, - e fu pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 26 aprile 1958, n. 101. Il 5 aprile 1958 si costituiva il Presidente del Consiglio dei Ministri con atto di intervento e deduzioni dell'Avvocatura generale dello Stato, ed il 16 maggio 1958 si costituiva altresì la Ceragioli Anna, a mezzo dell'avv. Sandro Diambrini Palazzi.

Nelle deduzioni presentate nell'interesse della Ceragioli si premette una contrapposizione tra l'art. 5 della legge del 1956 e gli artt. 2, 13, 17, 18 e 19 della Costituzione, rilevandosi che il diritto di libertà del cittadino può essere limitato dal potere di coazione personale dello Stato soltanto alla stregua del criterio della "sicurezza" degli altri cittadini, in conformità della sentenza n. 2 del 1956 della Corte costituzionale. A tale criterio non sarebbe con forme, secondo la difesa, il divieto di associarsi, in quanto esso importerebbe il divieto di accompagnarsi abitualmente a persone condannate e sottoposte a misure di sicurezza o di prevenzione per qualsiasi ragione: anche di cordialità, di lavoro, di cultura, di amicizia, di politica, di religione, di passatempo, di affetto; e ciò con una lesione della sfera della personalità che non troverebbe giustificazione alcuna nella necessità di garantire la sicurezza degli altri cittadini, tenendo presente che ne risulterebbero impediti perfino rapporti quali il fidanzamento, il matrimonio, l'appartenenza a una squadra sportiva, ecc. Di qui la violazione degli artt. 2 e 13 della Costituzione.

Sempre secondo la difesa della Ceragioli, col divieto di partecipare a pubbliche riunioni sarebbe inibito al sorvegliato, in contrasto con gli artt. 17, 18 e 19 della Costituzione, di partecipare a funzioni di culto, a riunioni sportive, a comizi elettorali, malgrado abbia il diritto di voto; di recarsi a messa, a una partita di calcio, al teatro, al cinema, a conferenze, trattandosi sempre di pubbliche riunioni: tutte preclusioni lesive di diritti costituzionalmente garantiti, e non giustificate da alcun pericolo per la sicurezza di alcuno.

Nelle sue deduzioni, l'Avvocatura dello Stato, premesso che la legge 27 dicembre 1956, n. 1423, trae origine dalle sentenze n. 2 e 11 del 1956 della Corte costituzionale, non contesta la gravità della misura della sorveglianza speciale, ma fa osservare che si é di fronte a persone nei cui riguardi i tentativi di correzione sono risultati vani e che per ciò sono divenute socialmente pericolose. É quindi la necessità della difesa sociale a giustificare l'impugnato obbligo di non associarsi abitualmente a chi abbia subito condanne e sia sottoposto a misure di prevenzione o di sicurezza. Posto in risalto che il concetto di "associarsi abitualmente" esige l'estremo dell'abitualità, per cui ne restano esclusi il semplice "accompagnarsi" o il coltivare rapporti di innocua amicizia, si sostiene che la valutazione della natura dei rapporti coltivati dal sorvegliato implica una questione di fatto, da risolversi dal giudice ordinario in sede di eventuale giudizio per la trasgressione degli obblighi.

Dopo aver rilevata la influenza che i fatti di associazione dei pregiudicati hanno in relazione ai delitti contro il patrimonio, l'Avvocatura eccepisce che il riferimento all'art. 2 della Costituzione fatto dal Tribunale é "vago e indeterminato". A suo avviso con la espressione "diritti inviolabili dell'uomo" si vollero designare i diritti naturali di uguaglianza e di libertà civili e politiche e quei diritti sociali alla solidarietà di cui nella seconda parte dell'art. 2, ma né nella nostra, né in altre Costituzioni, può considerarsi prevista come difesa dei "diritti inviolabili dell'uomo" la tutela dei "rapporti sentimentali interiori" o della "innocua e spirituale amicizia", come dice la ordinanza. Anche qui si sarebbe dinanzi a valutazioni di fatto rimesse al giudice della eventuale denuncia di violazione di obblighi derivanti dalla misura di prevenzione. Se é vero che l'art. 2 intende tutelare il diritto di libertà, é vero anche che proprio in tale settore le esigenze della difesa sociale rendono legittime le limitazioni. Il divieto di associarsi non é d'altra parte, di maggiore gravità delle altre prescrizioni dell'art. 5, riconosciute legittime.

In ordine alla denunciata violazione dell'art. 17 della Costituzione, é significativo, secondo l'Avvocatura, che proprio questo articolo prevede limitazioni del diritto di riunione per comprovati motivi di sicurezza. Si contesta poi che vi sia contraddizione fra il divieto di partecipare a pubbliche riunioni e la possibilità che ha il sorvegliato di frequentare osterie, bettole, ecc., sia perché tale occasionale frequenza può corrispondere a necessità elementari, il che non può riscontrarsi nell'intervento a pubbliche riunioni, sia per il carattere saltuario di tali riunioni, da cui esula la nota dell'abitualità.

Per il carattere pubblico, infine, delle riunioni che si svolgono in luoghi privati, l'Avvocatura afferma che si tratta di un accertamento che dovrà fare il giudice del merito, caso per caso, mentre appare indubbiamente legittimo il divieto quando si tratti di partecipare a riunioni manifestamente pubbliche, divieto che, tra l'altro, importa una limitazione meno grave di altre previste dallo stesso art. 5.

Nel ritenere "eccessivo" il riferimento alle manifestazioni di culto fatto dal Tribunale, quasi che la presenza di fedeli alla messa o alla predicazione o a una processione possa considerarsi una pubblica riunione inibita al vigilato, l'Avvocatura conclude per la infondatezza della proposta questione di legittimità costituzionale.

 

Considerato in diritto

 

Le due prescrizioni dell'art. 5 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, che sono oggetto della impugnazione e in forza delle quali é fatto divieto al sorvegliato speciale di associarsi abitualmente alle persone che hanno subito condanne e sono sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza e di partecipare a pubbliche riunioni, trovano il loro fondamento nelle finalità generali della intera legge. Non é dubbio che questa apporti limitazioni notevoli a taluni diritti riconosciuti dalla Costituzione; ma tali limitazioni sono informate al principio di prevenzione e di sicurezza sociale, per il quale l'ordinato e pacifico svolgimento dei rapporti fra i cittadini deve essere garantito, oltre che dal sistema di norme repressive dei fatti illeciti, anche da un parallelo sistema di adeguate misure preventive contro il pericolo del loro verificarsi nell'avvenire. E questa una esigenza e regola fondamentale di ogni ordinamento, accolta e riconosciuta dalla nostra Costituzione. E in effetti l'art. 13, con lo statuire che restrizioni alla libertà personale possono essere disposte soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge, riconosce per ciò stesso la possibilità di tali restrizioni in via di principio: riconoscimento che giunge sino al punto di superare il limite normale della garanzia giudiziaria e di consentire che, quando alla necessità si unisca l'urgenza, provvedimenti provvisori di limitazione della libertà siano devoluti anche all'autorità di pubblica sicurezza. Eguale riconoscimento é sancito negli articoli 16 e 17 della Costituzione, l'uno statuendo che la legge possa apportare limitazioni alla libertà di circolazione e di soggiorno quando ricorrano motivi di sanità o di sicurezza, l'altro consentendo il divieto delle pubbliche riunioni per comprovati motivi di sicurezza e di incolumità pubblica. Infine l'art. 25, secondo comma, col riaffermare il principio, già espresso dall'art. 199 del Codice penale, per il quale nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi stabiliti dalla legge, accoglie per ciò stesso nell'ordinamento il sistema delle misure di sicurezza a carico degli individui socialmente pericolosi. É ben vero che le misure di sicurezza in senso stretto si applicano dopo che un fatto preveduto dalla legge come reato sia stato commesso (art. 202 Cod. pen.), e quindi per una pericolosità più concretamente manifestatasi; ma poiché le misure di sicurezza intervengono o successivamente all'espiazione della pena, e cioè quando il reo ha già per il reato commesso soddisfatto il suo debito verso la società, ovvero (a parte le ipotesi di cui agli artt. 49 e 115 Cod. pen.) in casi nei quali il fatto, pur essendo preveduto dalla legge come reato, non é punibile, bisogna dedurne che oggetto di tali misure rimane sempre quello comune a tutte le misure di prevenzione, cioè la pericolosità sociale del soggetto.

La Costituzione, nel riconoscere la necessità di limitazioni ai diritti di libertà, dispone come si é ricordato, che queste limitazioni possano essere stabilite soltanto dalla legge e per atto motivato dell'autorità giudiziaria. Il principio dell'intervento dell'autorità giudiziaria é stato riaffermato da questa Corte nella sentenza n. 11 del 1956. Per ciò che riguarda la riserva di legge é ovvio che con essa non si dà luogo a una potestà illimitata del legislatore ordinario, rimanendo esso sempre sottoposto al controllo di questa Corte per la eventualità che, nel disporre limitazioni ai diritti di libertà, incorra in una qualsiasi violazione delle norme della Costituzione. Ma la Corte é d'avviso che le limitazioni che sono specifico oggetto della presente controversia siano, nel quadro generale dei principi su accennati, immuni da censure. Le due impugnate prescrizioni dell'art. 5, nel perseguire il fine della sicurezza sociale, si informano a un rigoroso criterio di necessità, come risulta in primo luogo dalle ristrette e qualificate categorie di individui cui la sorveglianza speciale può essere applicata (art. 1 della legge); e poi anche dal fatto che per le medesime categorie la sorveglianza speciale può essere disposta solo dopo che siano risultate senza effetto le diffide del questore, ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 1. Ma ciò che soprattutto la Corte ritiene di dover rilevare é che, ammesso in via generale dalla Costituzione il principio di una limitazione dei diritti di libertà per le esigenze della sicurezza sociale, le due impugnate prescrizioni disposte a carico del sorvegliato speciale dall'art. 5 sono tali, nel loro contenuto, da rientrare pienamente nella normale e logica applicazione del principio, visto che si ispirano alla direttiva fondamentale dell'attività di prevenzione, cioè tener lontano l'individuo sorvegliato dalle persone e dalle situazioni che rappresentano il maggiore pericolo.

Circa le ipotesi estreme prospettate nell'ordinanza di rinvio e nelle deduzioni difensive, se cioè nel divieto di associarsi non sia per avventura da comprendersi ogni forma di abituale accompagnarsi ad altra persona, per qualsiasi ragione di lavoro, di affetto, di cultura, di amicizia, ecc.; e se nel divieto di partecipare a pubbliche riunioni non rientrino perfino le funzioni di culto, i comizi elettorali, le riunioni sportive, e simili, occorre rilevare che codeste specificazioni importano in sostanza una determinazione dei concreti elementi di fatto che concorrono volta per volta a realizzare la fattispecie del reato di trasgressione agli obblighi della sorveglianza speciale: indagine che esula dal compito della Corte. D'altra parte al giudice penale, cui la indagine spetta, non dovrà sfuggire né il carattere eccezionale delle limitazioni di libertà in questione, che non può non riflettersi sul significato da attribuire ai termini adoperati dalla legge, né la distinzione, che certo merita di essere considerata, fra i contatti sociali che la legge specificamente indica come pericolosi e quelli che costituiscono il normale e quotidiano svolgimento dei rapporti della vita, inibito di regola soltanto a chi é sottoposto a misure detentive.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione, proposta con ordinanza del 1 marzo 1958 del Tribunale di Lucca, sulla legittimità costituzionale delle due norme dell'art. 5 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 indicate nell'ordinanza, in riferimento agli artt. 2 e 17 della Costituzione.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 aprile 1959.

Gaetano AZZARITI - Giuseppe CAPPI - Tomaso PERASSI - Gaspare AMBROSINI - Mario COSATTI - Francesco PANTALEO GABRIELI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Antonino PAPALDO - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA.

 

Depositata in cancelleria il 5 maggio 1959.