Sentenza n. 20 del 1956

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SENTENZA N. 20

ANNO 1956

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Avv. Enrico DE NICOLA, Presidente

Dott. Gaetano AZZARITI

Avv. Giuseppe CAPPI

Prof. Tomaso PERASSI

Prof. Gaspare AMBROSINI

Prof. Ernesto BATTAGLINI

Dott. Mario COSATTI

Prof. Francesco PANTALEO GABRIELI

Prof. Giuseppe CASTELLI AVOLIO

Prof. Antonino PAPALDO

Prof. Mario BRACCI

Prof. Nicola JAEGER

Prof. Giovanni CASSANDRO

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

 

sugli undici ricorsi notificati il 20 febbraio 1956 e depositati in cancelleria il 28 successivo, debitamente riuniti, proposti dalla Regione autonoma della Sardegna, rappresentata e difesa dagli avvocati Pietro Gasparri ed Egidio Tosato, per la dichiarazione di illegittimità costituzionale del D.P.R. 19 maggio 1949, n. 250, che reca norme di attuazione dello Statuto speciale per la Sardegna, per la sola parte concernente gli articoli sottoindicati:

Ricorso 1 - articolo 1

Ricorso 2 - articolo 4, lett. d);

Ricorso 3 - articolo 4, lett. e);

Ricorso 4 - articolo 4, lett. f);

Ricorso 5 - articolo 11, lettere a), c), d);

Ricorso 60 - articoli 19 e 20;

Ricorso 7 - articolo 31;

Ricorso 8 - articolo 39, commi 1 e 2;

Ricorso 9 - articolo 44;

Ricorso 10 - articolo 54;

Ricorso 11 - articolo 56:

Viste le costituzioni in giudizio del Presidente del Consiglio dei Ministri avvenute con il deposito delle deduzioni in cancelleria;

Udita all'udienza pubblica del 6 giugno 1956 la relazione del Giudice Giuseppe Castelli Avolio;

Uditi gli avvocati Pietro Gasparri ed Egidio Tosato per la Regione ricorrente ed il sostituto avvocato generale dello Stato Francesco Agrò.  

 

Ritenuto in fatto

 

 

La Regione autonoma della Sardegna, con undici ricorsi regolarmente notificati, denuncia a questa Corte la illegittimità costituzionale di una serie di norme contenute nel decreto del Presidente della Repubblica 19 maggio 1949, n. 250, recante disposizioni per l'attuazione dello Statuto speciale per la detta Regione.

Con un primo gruppo di ricorsi denuncia la illegittimità degli artt. 1 e 4, lettere d, e ed f, del capo 1 del decreto sopraindicato per i seguenti motivi:

a) Quanto all'art. 1, che esso contrasterebbe con i precetti di cui agli artt. 19, 20 e 54 dello Statuto speciale, perché segnerebbe una non consentita ingerenza dello Stato in una materia, quale quella delle sessioni ordinarie e straordinarie del Consiglio regionale, riservata alla competenza regolamentare del Consiglio stesso e, comunque, nel suo primo comma, contrasterebbe direttamente con lo Statuto, che prevede due sole sessioni ordinarie, a febbraio e ottobre.

b) Quanto all'art. 4, lettere d ed e, sia perché le norme inciderebbero su materie, come quelle dell'ordinamento degli uffici e dei lavori pubblici, che lo Statuto speciale ricomprende tra quelle di competenza esclusiva del legislatore regionale; sia perché, attribuendo al Consiglio compiti di natura meramente esecutiva, si offenderebbe il principio della separazione dei poteri.

c) Quanto all'art. 4, lett. f, perché questa norma, assegnando al Consiglio regionale "ogni altra attribuzione per la quale la legge richiede l'approvazione del Consiglio", parrebbe autorizzare il legislatore ordinario ad allargare la competenza legislativa del Consiglio; ciò che invece non sarebbe statutariamente e costituzionalmente consentito, dato che il legislatore ordinario non avrebbe competenza ad introdurre modificazioni allo Statuto e, sotto altro aspetto, perché la distribuzione della competenza tra gli organi sarebbe compito del legislatore regionale.

Il secondo gruppo di precetti di cui é denunciata la illegittimità costituzionale é costituito dalle disposizioni contenute nell'art. 11, lettere a e d, in relazione agli artt. 34, 37, 41 e 54 dello Statuto speciale.

Si deduce il contrasto di queste disposizioni con i principi che informerebbero il sistema dei rapporti tra gli organi esecutivi della Regione, e ciò perché spetterebbe solo alla legge regionale dire quali sono gli uffici che dipendono dal Presidente e quali invece dagli assessori. Si aggiunge che le norme di attuazione non avrebbero potuto negare agli assessori veste di organi costituzionali esterni.

Delle disposizioni contenute nel capo V del decreto presidenziale di attuazione formano oggetto di specifica impugnativa sia l'art. 19 che l'art. 20, ambedue in relazione con l'art. 3, lett. a, dello Statuto speciale.

Le norme indicate come costituzionalmente illegittime attengono alla nomina del Segretario generale della Regione e all'assunzione degli impiegati amministrativi e tecnici. Si deduce che queste norme contrasterebbero con la legge statutaria dal momento che lo Statuto demanda alla Regione la regolamentazione dell'ordinamento degli uffici e dello stato giuridico ed economico del personale.

Con altro ricorso la Regione denuncia la illegittimità costituzionale dell'art. 31, comma 1, del più volte citato decreto presidenziale in relazione agli artt. 46 e 54 dello Statuto speciale, per riflesso che la norma impugnata, conferendo al Rappresentante del Governo il potere di richiedere al Presidente della Giunta regionale e ai Presidenti delle Deputazioni provinciali notizie e chiarimenti relativi alla attività degli organi regionali, lascerebbe intendere di aver voluto attribuire al Rappresentante del Governo un potere di controllo sugli atti degli enti locali, controllo che la legge statutaria demanda agli organi della Regione.

Tra le norme contenute nel capo VIII, intitolato "Finanze, demanio e patrimonio regionale", risultano impugnate le disposizioni degli artt. 39 e 44.

L'art. 39 forma oggetto di ricorso nei suoi due primi commi, in riferimento agli artt. 14, 54 e 58 dello Statuto speciale. Si deduce: a) che il trapasso dei beni demaniali e patrimoniali dallo Stato alla Regione doveva avvenire immediatamente e non con decorrenza 1 gennaio 1950 come dispone il decreto di attuazione; b) che gli elenchi dei beni la cui proprietà trapassa alla Regione avrebbero dovuto comprendere anche "i beni demaniali e patrimoniali connessi a servizi di competenza statale e a monopoli fiscali", che lo Statuto regionale prevede restino allo Stato solo finché duri tale destinazione. Questi beni apparterrebbero infatti allo Stato ma non a titolo di proprietà.

L'art. 44, riguardante la Ragioneria generale della Regione, é invece indicato come costituzionalmente illegittimo per una molteplicità di motivi.

La istituzione, l'organizzazione e il funzionamento della Ragioneria regionale - si dice - forma oggetto di competenza legislativa esclusiva della Regione, perché questo ufficio farebbe parte integrante dell'organismo burocratico regionale. Si aggiunge che il Ministero del Tesoro, che di concerto con il Presidente della Regione provvede alla nomina del ragioniere regionale, viene per ciò solo a svolgere una ingerenza non consentita sulla gestione del patrimonio regionale, controllo che oltretutto risulterebbe un duplicato di quello della Corte dei conti.

Gli ultimi due ricorsi riguardano precetti contenuti nelle disposizioni transitorie e finali, e precisamente negli artt. 54 e 56.

L'art. 54, che dichiara soggette a vigilanza delle Amministrazioni tecniche e finanziarie dello Stato le attività svolte dalla Regione con speciali contributi dello Stato, sarebbe in contrasto con gli artt. 3, 4, 6 e 54 della legge statutaria, sia perché lo Statuto esclude che attività amministrative della Regione possano essere in qualche modo disciplinate con norme poste in essere da qualsiasi autorità che non sia il legislatore regionale, sia perché in tal modo, e in difformità con quanto previsto dalla stessa Costituzione, verrebbe ad instaurarsi un duplice controllo, accentrato, da esercitarsi nei limiti e con la procedura che l'organo di controllo stabilirà con proprio atto normativo.

L'art. 56, infine, risulterebbe incompatibile con l'art. 3, lett. f, in relazione anche all'art. 6 dello Statuto speciale, perché riconosce alla Regione solo la funzione preliminare di elaborazione tecnica dei piani territoriali di coordinamento urbanistico, mentre l'art. 3 sopraccitato attribuisce alla Regione competenza legislativa in materia urbanistica e di edilizia.

La difesa della Regione conclude pertanto, in tutti i ricorsi, chiedendone l'accoglimento, per i sopra accennati motivi di illegittimità costituzionale, anche sotto il riflesso della invasione della competenza della Regione in ordine alla revisione dello Statuto, procedura di revisione che, in ogni caso, si sarebbe dovuta seguire per operare le modificazioni e le innovazioni denunciate. Con le conseguenti pronunce.

L'Avvocatura generale dello Stato, in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei Ministri, resiste a tutti i ricorsi.

In linea generale l'Avvocatura osserva:

1) che le norme di attuazione dello Statuto speciale per la Sardegna sono state emanate in virtù di una delega conferita dal legislatore costituente, al fine, se non di abrogare o di modificare lo Statuto, certo di integrarlo e di adattarlo, onde consentire l'esercizio in concreto dell'autonomia regionale;

2) che queste norme, anche in ragione del loro carattere evidentemente pattizio (la stessa Regione ha partecipato alla loro formazione, attraverso la Commissione paritetica di cui all'art. 56 dello Statuto e al parere della Consulta regionale), formano con lo Statuto, che esse integrano ed attuano, un corpo unico ed il prius logico della stessa autonomia. Non potrebbero pertanto essere attaccate per pretesa invasione di una assunta competenza regionale, competenza che é effetto di quell'autonomia che Statuto e norme di attuazione conferiscono alla Regione;

3) che in ogni modo, e fin tanto che la Regione non provvede con proprie leggi a regolare tutti i settori della sua competenza, le leggi dello Stato ben possono contenere disposizioni su queste materie di competenza regionale.

Sul merito dei singoli ricorsi l'Avvocatura oppone:

1) che le norme di cui agli artt. 1, 4, lettere d, e, ed f, 11, lettere a, c, d, 19 e 20, integrano disposizioni statutarie senza derogare allo Statuto. In particolare esse o accrescono la funzionalità del Consiglio regionale (art. 1), o meglio ne delimitano la competenza in relazione a materie di particolare importanza (art. 4, lettere d ed e), o specificano prescrizioni generiche dello Statuto (art. 11), o contengono precetti di pura esecuzione (artt. 19 e 20);

2) che la richiesta di notizie e chiarimenti di cui all'art. 31 non dà per sé sola luogo all'esercizio di alcun controllo;

3) che la data del trapasso dei beni demaniali e patrimoniali dallo Stato alla Regione non era prevista nello Statuto sardo; mentre, per ciò che attiene alla consegna degli elenchi, la Regione non può aver interesse a riceverli fin tanto che non si estingua il diritto di proprietà dello Stato;

4) che la disciplina dettata all'art. 44, a proposito della Ragioneria regionale, soddisfa il precetto di cui all'art. 7 dello Statuto, quale mezzo inteso ad assicurare il coordinamento della finanza regionale con quella statale;

5) che l'art. 54 delle norme di attuazione ove, come si assume, si riferisca all'ipotesi di attività di competenza regionale, per le quali la Regione deve far ricorso al contributo dello Stato, riguarderebbe un caso non previsto nello Statuto ma che, potendosi verificare in pratica, doveva appunto essere considerato nelle norme di integrazione;

6) che nel denunciare l'illegittimità costituzionale dell'art. 56 la Regione avrebbe omesso di tener conto che i piani di coordinamento in materia urbanistica possono concernere zone territoriali ben più estese della Regione. L'intervento del Ministero dei lavori pubblici sarebbe quindi imposto dalla necessità di armonizzare in sede nazionale i diversi piani di coordinamento.

L'Avvocatura dello Stato conclude, pertanto, chiedendo il rigetto di tutti i ricorsi, con ogni statuizione di conseguenza.

La difesa della Regione e l'Avvocatura generale dello Stato hanno poi depositato presso la cancelleria della Corte due memorie.

In quella propria, l'Avvocatura dello Stato si limita a riprodurre vari brani dei lavori preparatori delle norme impugnate, dai quali é dato desumere il punto di vista della Commissione paritetica o della Consulta regionale, rilevando, a conclusione di siffatti richiami, che, pure astraendo da ogni altra questione di forma e di fondo, i ricorsi della Regione sarda non potrebbero trovare accoglimento, perché o la Regione difetta di interesse a ricorrere avendo, quanto meno, contribuito, attraverso la propria rappresentanza in seno alla Commissione paritetica, alla formazione delle norme impugnate, o avendo ad esse prestato acquiescenza in sede di voto della Consulta.

Dal canto suo, la difesa della Regione, nella propria memoria, tratta ampiamente la questione della natura giuridica delle norme di attuazione.

A riguardo osserva:

1) che le norme di cui trattasi sono espressione di una competenza legislativa sostanzialmente regolamentare e formalmente delegata e, quindi, necessariamente limitata sia quanto all'oggetto ed ai criteri, che al tempo del suo stesso esercizio;

2) che la limitazione di oggetto risulta dalla nozione stessa di norme di attuazione, letteralmente e funzionalmente incompatibile con la tesi che a queste norme vorrebbe invece riconoscere la possibilità di un contenuto integrativo e di completamento del precetto statutario. Ciò infatti contrasterebbe con il termine "attuazione", che lessicalmente e giuridicamente non significa altro che esecuzione e quindi, tutt'al più, sviluppo di principi che sono contenuti già nello Statuto;

3) che le limitazioni di tempo sono insite nella funzione cui le norme adempiono e che si soddisfa col fatto stesso del suo primo esercizio;

4) che contro ciò non vale opporre la struttura pattizia delle norme, dal momento che la funzione é stata esercitata con la forma del decreto legislativo, che é tipica di alcune manifestazioni della volontà normativa statuale, mentre non sarebbe vero affatto che la Regione sarda abbia partecipato alla formazione di queste norme, per l'assorbente motivo che la Regione, come organismo funzionante, non preesisteva alla emanazione delle norme di attuazione;

5) che, per contro, la tesi della Regione sarda trova fondamento nel fatto che le norme, di cui essa denuncia la illegittimità costituzionale, o esorbitano dai limiti della mera attuazione, ponendosi in conflitto diretto con il precetto statutario, o di questi precetti tradiscono il principio ispiratore e, frapponendo ostacoli o dettando prescrizioni sul modo di esercizio dell'autonomia, finiscono praticamente per impedire l'esercizio concreto dell'autonomia stessa pur statutariamente garantito.

Nella seconda parte della memoria, la difesa della Regione si sofferma ad illustrare le doglianze dedotte con i singoli ricorsi e conclude insistendo nelle conclusioni già rese.

In conformità del disposto dell'art. 15 delle norme integrative per i giudizi davanti a questa Corte, gli undici ricorsi sono stati chiamati nella stessa udienza del 6 giugno 1956 per essere congiuntamente discussi.

 

Considerato in diritto

 

 

La Corte ha ravvisato opportuna la riunione dei ricorsi per la loro decisione con unica sentenza. Ha rilevato infatti che, oltre alla identità delle parti in causa, é comune ai ricorsi stessi la risoluzione di varie questioni riguardanti la natura delle norme di attuazione, di cui si discute, e innanzi tutto, la eccezione di inammissibilità, sotto il profilo della acquiescenza o della mancanza di interesse a ricorrere della Regione, sollevata dall'Avvocatura dello Stato.

L'eccezione di inammissibilità dei ricorsi dev'essere respinta perché giuridicamente infondata.

Essa non é infatti fondata sotto il profilo della acquiescenza che avrebbe prestato la Regione a seguito della partecipazione di due membri regionali alla Commissione paritetica, ed anche per effetto del parere dato sulle emanande norme dalla Consulta regionale, giacché, anche a prescindere dalla questione se i due membri della Commissione paritetica nominati dall'Alto Commissario per la Sardegna avessero o meno la veste di veri e propri rappresentanti della Regione ai fini del compito precipuamente collegiale, che era stato demandato alla detta Commissione, di proporre le norme, é fin troppo evidente - e ciò vale anche rispetto al parere successivamente espresso dalla Consulta regionale - che le disposizioni legislative, una volta emanate, si distaccano dalla volontà delle persone o degli organi che le hanno proposte, discusse o approvate. Una volta emanata una legge, é la volontà della legge, nel suo contenuto e in virtù della sua forza cogente, che si sovrappone a quella degli organi o delle persone che hanno collaborato a formularla e che si afferma per sé stante, in modo del tutto autonomo e indipendente. Ma anche a volere ammettere - per mera ipotesi - che un qualche elemento di volontà, attraverso la proposta della Commissione paritetica o il parere della Consulta regionale, sia entrato a far parte delle emanate norme legislative, é fuori dubbio che ciò non poteva infirmare in alcun modo il potere- dovere - di ordine pubblico di un diverso organo, qual é l'Ente Regione, di impugnare di illegittimità costituzionale quelle norme, che avesse ravvisato affette da tal vizio, a difesa delle proprie attribuzioni e della propria autonomia.

Non é poi fondata la sollevata eccezione di inammissibilità dei ricorsi sotto il profilo della mancanza di interesse della Regione a ricorrere, in quanto é da rilevare che la Regione medesima si é trovata di fronte a disposizioni legislative che assume costituzionalmente illegittime, ma che però hanno pieno, completo e immediato vigore: si é trovata, cioè, in una posizione analoga a quella prevista nell'art. 57 dello Statuto speciale, secondo cui nelle materie attribuite alla competenza della Regione, fino a quando non sia diversamente disposto con leggi regionali, si applicano le leggi dello Stato. Il che conferma la sussistenza di un interesse attuale della Regione per l'impugnativa delle norme in questione.

Ciò posto, ai fini dell'affermazione della competenza di questa Corte e per l'esame di merito dei ricorsi, occorre previamente accertare quale sia la natura e quale la portata delle norme di attuazione di cui si tratta.

É noto che con l'art. 56 dello Statuto sardo si é conferito al Capo dello Stato una potestà legislativa, quella di emanare le norme di attuazione dello Statuto, con la forma e seguendo la procedura stabilite in detto articolo.

Ma, innanzi tutto, é da rilevare che, pur provenendo siffatto conferimento di potestà legislativa dall'Assemblea costituente e pur trovando esso la sua fonte formale nello Statuto - che é legge costituzionale - le emanate norme non hanno la natura di legge costituzionale. Infatti l'Assemblea costituente aveva il potere di emanare lo Statuto, ma non quello, diverso, di attribuire al Governo il potere costituente, e cioè, nella specie, il potere suo proprio caratteristico, giacché il potere dell'organo costituente non può essere mai ad altro organo conferito o delegato. Ci si trova, quindi, di fronte ad ordinarie norme aventi forza di legge, sulle quali pienamente può essere esercitato il sindacato di legittimità costituzionale di questa Corte, ai sensi dell'art. 134 della Costituzione, dell'art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, e dell'art. 32 della legge ordinaria 11 marzo 1953, n. 87.

Più precisamente é da rilevare che é lo stesso art.56 dello Statuto sardo che dà una denominazione giuridica al decreto del Capo dello Stato contenente le norme di attuazione: lo chiama "decreto legislativo". Ma é da osservare che esso va distinto tanto dai decreti legislativi - così anche denominati - che nel periodo transitorio e durante quello della Costituente furono emanati in base al D.L.L. 25 giugno 1944, n. 151, e all'altro D.L.L. 16 marzo 1946, n. 98, quanto dalle leggi delegate - anch'esse usualmente dette decreti legislativi - emanati in base alla disposizione contenuta nell'art. 76 dalla Costituzione. Quei primi avevano la loro giustificazione e trovavano la loro fonte nella necessità del Governo di provvedere quando non esisteva il Parlamento e durante il periodo della Costituente, fino alla costituzione delle nuove Camere; gli altri - le leggi delegate in base all 'art. 76 della Costituzione - trovano la loro fonte e il loro regolamento nella Carta costituzionale e sono legati ai limiti e alle condizioni che lo stesso art. 76 pone, e cioè la determinazione dei principi e dei criteri direttivi, per quanto riguarda il loro contenuto, la limitazione del tempo per la loro emanazione e la determinazione di oggetti definiti, per quanto riguarda la materia. Limiti e condizioni che all'infuori dell'oggetto - non si riscontrano nel caso dell'art. 56 dello Statuto sardo; onde bisogna concludere che si é trattato di una speciale attribuzione di facoltà legislativa, fatta dall'organo costituente, subordinata alle determinate forme stabilite nel detto articolo - quale la formazione della Commissione paritetica e il parere della Consulta regionale - per raggiungere la finalità di porre in essere quelle norme di attuazione che dovevano accompagnare la nascita della Regione e renderne praticamente e giuridicamente possibile l'attività. Esattamente quindi, nel preambolo del decreto del Presidente della Repubblica del 19 maggio 1949, n. 250, col quale furono emanate le norme in questione, é stato in modo espresso richiamato l'art. 87 della Costituzione che, fra l'altro, contiene l'attribuzione al Capo dello Stato della facoltà di emanare decreti aventi forza di legge.

Se tale, ad avviso della Corte, é la natura giuridica delle norme in esame, occorre tuttavia precisarne la portata.

Esse non sono norme di mera esecuzione dello Statuto regionale. Se tali avessero dovuto essere, sarebbe forse bastata, per molte di esse, la forma del regolamento esecutivo. Ma esse si differenziano dal regolamento che contenga disposizioni di mera esecuzione di una legge per la rilevata loro finalità e per la struttura organica che é facilmente in esse riscontrabile. La loro finalità é quella non già di stabilire semplicemente, come in un regolamento, quelle disposizioni più dettagliate che occorrano per la esecuzione della legge, ma di porre, ove necessario, disposizioni di carattere normativo - anche per le relazioni fra Stato e Regione - per l'"attuazione" dello Statuto, secondo la precisa espressione adoperata dall'art. 56. Da ciò il carattere legislativo e non regolamentare stabilito dallo stesso legislatore costituente.

Ora, emanare disposizioni legislative per l'attuazione dello Statuto, significava e significa non soltanto emanare norme non in contrasto con la Costituzione - il che é ovvio -, ma, ancora, non in contrasto, sebbene in aderenza - per la finalità specifica delle norme stesse - con le disposizioni dello Statuto speciale. Tale aderenza si riferisce ben vero a due settori nettamente distinti: quello di merito, avente riguardo alla bontà, alla opportunità di tali norme nell'interesse da un lato dello Stato e dall'altro della Regione - onde la creazione della Commissione paritetica composta di membri nominati dal Governo della Repubblica e di membri nominati dall'Alto Commissario per la Sardegna -, settore rispetto al quale non può estendersi il sindacato di legittimità costituzionale di questa Corte senza sconfinare in apprezzamenti di carattere amministrativo; e l'altro settore, quello della costituzionalità delle norme, che forma appunto il campo proprio del sindacato di legittimità costituzionale della Corte stessa. In questo settore, di competenza della Corte, l'indagine dev'essere volta ad accertare se le norme di attuazione, nel loro formale e sostanziale contenuto, siano, con riferimento alle formulate impugnative, in contrasto con le disposizioni dello Statuto o col fondamentale principio dell'autonomia regionale quale risulta da espresse disposizioni dello Statuto stesso.

Questo conflitto - a giudizio della Corte - sarà da ravvisarsi ogni qualvolta le norme di attuazione siano contra legem, ossia contra Statutum. In questo caso - ed esclusivamente in esso - se si fossero volute modificare le disposizioni statutarie, si sarebbero dovute seguire le prescrizioni stabilite dall'art. 54 per la revisione dello Statuto; e in tal senso - e soltanto nella prospettata ipotesi - sarebbe fondata la doglianza della difesa della Regione, che, fra l'altro, deduce appunto la violazione del detto art. 54; mentre, ai fini del presente giudizio, basta la dichiarazione di illegittimità costituzionale delle norme contra legem per privarle di ogni giuridica efficacia.

Se poi le norme di attuazione siano praeter legem, nel senso che abbiano integrato le disposizioni statutarie od abbiano aggiunto ad esse qualche cosa che le medesime non contenevano, bisogna vedere se queste integrazioni od aggiunte concordino innanzi tutto con le disposizioni statutarie e col fondamentale principio dell'autonomia della Regione, e se inoltre sia giustificata la loro emanazione dalla finalità dell'attuazione dello Statuto.

Laddove, infine, si tratti di norme secundum legem, é ovvio che se esse, nel loro effettivo contenuto e nella loro portata, mantengano questo carattere, non é a parlarsi di illegittimità costituzionale, ma sarebbe pur sempre da dichiararsene la illegittimità nel caso che esse, sotto l'apparenza di norme secundum legem, sostanzialmente non avessero tal carattere, ponendosi in contrasto con le disposizioni statutarie e non essendo dettate dalla necessità di dare attuazione a queste disposizioni.

Fatte queste premesse e passando all'esame del merito dei singoli ricorsi, la Corte osserva:

Col primo ricorso la Regione sarda muove due lagnanze.

Sostiene, con la prima, che il 1 comma dell'art. 1 delle norme di attuazione, che fissa tre sessioni ordinarie del Consiglio regionale, a febbraio, giugno e ottobre, sarebbe in contrasto col 1 comma dell'art. 20 dello Statuto, che stabilisce che il Consiglio si riunisce "di diritto" il primo giorno festivo di febbraio e di ottobre. Senza entrare in quella che può essere l'opportunità, dal punto di vista amministrativo, di stabilire tre sessioni obbligatorie del Consiglio, con l'aumento delle sessioni ordinarie da due a tre - con l'aggiunta cioè della sessione di giugno -, il che esula dalla competenza di questa Corte (ed é ovvio che il Consiglio potrà riunirsi in via straordinaria tutte le volte che lo si riterrà necessario, su iniziativa del suo Presidente, del Presidente della Giunta o su richiesta dei suoi componenti), ritiene la Corte che la doglianza della Regione sia fondata in quanto, aumentandosi il numero delle sessioni ordinarie, si modifica una disposizione statutaria, mutandosi in un obbligo quella che é una semplice facoltà stabilita dallo Statuto.

Non fondata, invece, si appalesa l'altra doglianza, dedotta col medesimo primo ricorso, riguardante il 2 comma dello stesso art. 1 delle norme di attuazione. Col detto 2 comma delle norme si stabilisce che "la convocazione in sessione straordinaria é disposta dal Presidente del Consiglio (regionale) e deve aver luogo in ogni caso entro dieci giorni dalla data in cui sia pervenuta alla Presidenza la richiesta di cui all'art. 20, secondo comma, dello Statuto speciale"; mentre il richiamato 2 comma dell'art. 20 dello Statuto prescrive che il Consiglio "si riunisce in via straordinaria per iniziativa del suo Presidente o su richiesta del Presidente della Giunta regionale o di un quarto dei suoi componenti". Dall'esame di questi due commi chiaramente si evince che mentre quello dell'art. 20 dello Statuto contiene la norma di carattere sostanziale riguardante la facoltà della convocazione del Consiglio in via straordinaria, l'impugnato comma delle norme di attuazione regola soltanto l'uso di tale facoltà, stabilendo il termine per la convocazione straordinaria, il che era pur necessario fare ed era compito delle norme di attuazione stabilirlo. Non vi é quindi nessun contrasto fra le due disposizioni, di natura diversa e aventi diversa finalità.

Con il secondo ricorso la Regione lamenta che con l'art. 4, lett. d, delle norme di attuazione, in contrasto con i principi contenuti negli articoli 3, lettere a ed e, 27 e 34 dello Statuto speciale, si sia stabilito che il Consiglio regionale ha competenza a provvedere alla approvazione di piani di opere pubbliche di competenza della Regione e ai relativi finanziamenti. Sostiene che si sarebbe invasa la competenza legislativa della Regione per il riflesso che la norma inciderebbe nel campo dell'ordinamento degli uffici amministrativi (per quanto riguarda il controllo sull'opera di elaborazione dei piani) nonché in quello dei lavori pubblici, mentre l'una e l'altra materia sono riservate alla legislazione regionale primaria. Vi sarebbe poi violazione dei precetti statutari che distribuiscono la competenza del Consiglio e della Giunta in base alla natura legislativa o amministrativa dell'attività.

Tali doglianze non si appalesano fondate. Vero é che con la lett. e dell'art. 3 dello Statuto si attribuisce alla competenza legislativa primaria della Regione la materia dei "lavori pubblici di esclusivo interesse della Regione"; ma la lett. d dell'art. 4 delle norme di attuazione non riguarda le opere pubbliche in generale, ma l'approvazione di "piani" di opere pubbliche e i "finanziamenti relativi". I "piani" costituiscono programmi organici di opere e per l'attuazione di essi si prevedono appositi finanziamenti e cioè finanziamenti eccedenti il bilancio ordinario; però é pienamente giustificato che di essi si occupi il Consiglio, sotto il rilevato duplice profilo della loro approvazione e del finanziamento. Né ciò tocca l'ordinamento degli uffici, la cui competenza rimane integra, sia nel momento dell'elaborazione dei piani, sia in quello della loro esecuzione. É da aggiungere che lo Statuto regionale (richiamati artt. 27 e 34), mentre indica nel Consiglio e nella Giunta gli organi competenti ad esercitare rispettivamente, le funzioni legislative e regolamentari e quelle esecutive, non dispone affatto nel senso che l'organo depositario del potere legislativo non possa, in forma legislativa, emanare atti di natura amministrativa, che assurgano, come si é visto, a determinata importanza. Ciò sembra anzi necessario quando derivi un impegno straordinario per le finanze della Regione. L'importanza della materia su cui si richiede una delibera del Consiglio, l'opportunità che su di essa abbia luogo un dibattito con le stesse forze dell'opposizione, giustificano appieno la norma in questione, che é sì praeter Statutum, ma non é in contrasto, sebbene in armonia con le sue disposizioni.

Il secondo ricorso va quindi respinto.

Nemmeno il terzo ricorso si appalesa fondato.

Con esso la Regione impugna di illegittimità costituzionale l'art. 4, lett. e, delle norme di attuazione che attribuisce al Consiglio regionale la competenza circa "la nomina di commissioni o di membri di commissioni, devoluta da leggi speciali alla Regione" . Ma é da osservare che con questa disposizione, col riferimento a leggi speciali che lo stabiliscano, non si invade il campo dei competenti organi della Regione per la formazione di ordinarie commissioni e la nomina dei loro componenti. Tale competenza non viene toccata. Infatti, per nulla risulta, dalla norma in questione, che le leggi dello Stato possano imporre alla Regione la nomina di qualsiasi commissione. La norma in esame prevede, invece, il caso in cui lo Stato abbia un interesse proprio ad ottenere la collaborazione della Regione, attraverso competenti od esperti designati appunto dalla Regione e costituiti in commissione, per l'indagine, lo studio e il parere su problemi aventi riflessi generali o nazionali. Non di comuni commissioni amministrative si tratta, ma di commissioni ad alto livello per lo studio di problemi alla cui risoluzione, nel quadro delle finalità generali dello Stato e della Regione, siano interessati e Stato e Regione.

Si tratta, anche qui, di una norma praeter Statutum, la cui legittimità costituzionale non é dubbia.

Col quarto ricorso la Regione denuncia la illegittimità costituzionale dell'art. 4, lett. f, delle norme di attuazione, che dispone che il Consiglio regionale é competente a deliberare in ogni altra materia per la quale la legge richieda l'approvazione del Consiglio stesso.

La Corte ritiene che il contenuto, del tutto generico, di questa disposizione, non giustifichi il riconoscimento della dedotta illegittimità costituzionale. La norma in questione dev'essere interpretata entro i limiti delle generali attribuzioni statutarie assegnate al Consiglio regionale, giammai al di fuori di tali limiti. Infatti, o una legge attuale eccede i limiti di quella competenza statutaria, e la Regione già avrà provveduto ad impugnarne la legittimità costituzionale; o si tratterà di legge futura, e la Regione potrà sempre sottoporla a tale sindacato di legittimità.

Fondato é, invece, il quinto ricorso.

Con questo la Regione impugna l'art. 11 delle norme di attuazione nelle disposizioni contenute alle lettere a, c e d. Le disposizioni, la cui illegittimità costituzionale é denunciata, dispongono: che il Presidente della Giunta rappresenta la Regione e ne firma gli atti (lett. a); sovraintende a tutti gli uffici e servizi regionali (lett. c); firma i titoli di spese (lett. d). Ora, mentre l'art. 35 dello Statuto stabilisce la norma fondamentale e generale che "il Presidente della Giunta regionale é il rappresentante della Regione autonoma della Sardegna", ed altri articoli dello Statuto stesso meglio delineano la figura e le attribuzioni del Presidente (artt. 15, 19, 20, 21, 36, 37, 41, 47, ecc.), l'art. 34 dello Statuto elenca fra gli organi esecutivi della Regione i "componenti della Giunta", ossia gli assessori, e l'art. 37 stabilisce che essi sono nominati dal Consiglio, su proposta del Presidente, e sono "preposti ai singoli rami dell'Amministrazione". Non sono dunque, gli assessori, dei collaboratori del Presidente, ma ad essi sono attribuiti singoli settori dell'attività regionale, adottano i provvedimenti di loro competenza e ne rispondono verso la Giunta. L'art. 41 dello Statuto riconosce ai membri della Giunta potestà di emettere provvedimenti impugnabili davanti alla Giunta stessa, col che é riconosciuta la loro qualità di organi esterni della Regione. Il fatto che, in tal caso, é da ravvisare la figura del ricorso gerarchico improprio, conferma quella qualità. Contro questa precisa regolamentazione statutaria, nella quale si snoda la struttura organica della Regione, con la attribuzione agli assessori di competenze proprie nei singoli settori, contrastano le denunciate disposizioni dell'art. 11 delle norme di attuazione, che vorrebbero accentrare nel Presidente della Regione funzioni che sono proprie degli assessori.

A conferma di ciò sta l'art. 12 (non impugnato) delle norme di attuazione, che espressamente stabilisce che "gli assessori preposti ai singoli rami dell'Amministrazione regionale, ne dirigono l'attività e rispondono dei loro atti alla Giunta". Questo non implica che attribuzioni proprie del Presidente della Giunta non possano essere assegnate agli assessori, tenendosi conto della sfera della loro competenza; lo ammette lo stesso art. 12 delle norme di attuazione, ma questo non nega, anzi conferma l'attribuzione delle competenze specifiche ai singoli assessori, con le quali, come si é visto, sono in contrasto le impugnate disposizioni dell'art. 11.

Il sesto ricorso investe gli artt. 19 e 20 delle norme di attuazione in relazione all'art. 3, lett. a, dello Statuto. L'art. 19 stabilisce che la Regione ha un segretario generale, il quale sovraintende al funzionamento di tutti gli uffici regionali. L'art. 20 poi prescrive che alla nomina del segretario generale della Regione si provvede mediante pubblico concorso, aggiungendo che é altresì obbligatorio il pubblico concorso per l'assunzione in carriera degli impiegati amministrativi e tecnici della Regione quando la Giunta regionale non ravvisi la possibilità di provvedere con personale comandato appartenente a uffici statali o ad enti locali.

Non si discute che l'assunzione attraverso il pubblico concorso degli impiegati e funzionari della Regione - ed anche del segretario generale - corrisponda ad una buona regola amministrativa, sempre da seguire, ad eccezione di casi particolari che giustifichino un diverso criterio, e tale regola é ora consacrata nel precetto contenuto nell'ultimo comma dell'art. 97 della Costituzione, che stabilisce: "agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge". Senza dubbio la Regione sarda si atterrà a questa regola fondamentale. Ma in questa sede non si tratta di giudicare della intrinseca bontà o convenienza amministrativa delle norme di attuazione impugnate, sebbene della loro legittimità costituzionale e, sotto questo profilo, non si può non convenire con le doglianze della Regione che ravvisa, nelle indicate disposizioni delle norme di attuazione, una invasione nel campo dell'ordinamento degli uffici e dello stato giuridico del proprio personale. Lo Statuto speciale, infatti, alla lett. a dell'art. 3, dà alla Regione una competenza piena circa l'ordinamento degli uffici e degli enti amministrativi della Regione e lo stato giuridico ed economico degli impiegati. Per quanto riguarda il segretario generale, non può negarsi alla Regione la potestà propria di istituire o meno una segreteria generale con competenza su tutti gli uffici regionali, ovvero di creare altrimenti posti direttivi per i vari settori o branche dell'amministrazione o di prescegliere, ancora, altre soluzioni che le sembrino più adatte e convenienti, in relazione alle esigenze amministrative. In tal senso quindi, nel senso cioè della invasione in una sfera di specifica competenza attribuita alla Regione, il sesto ricorso va accolto.

Privo di ogni giuridico fondamento é, invece, il settimo ricorso.

Con esso si sostiene la illegittimità costituzionale del 1 comma dell'art. 31 delle norme di attuazione, che stabilisce che il Presidente della Giunta regionale ed i Presidenti delle Deputazioni provinciali forniscono le notizie e i chiarimenti relativi alle attività degli organi regionali e provinciali, nonché copia delle deliberazioni adottate, che siano richiesti dal Rappresentante del Governo. La Regione ravvisa in questa richiesta di notizie e chiarimenti una forma di esercizio di controllo sugli atti degli enti locali, che é invece devoluto dall'art. 46 dello Statuto agli organi della Regione. La disposizione impugnata nasconderebbe - secondo la Regione una non consentita invasione in una sfera di competenza esecutiva della Regione stessa. Sennonché é da notare che siffatta richiesta di notizie e chiarimenti e di copia delle delibere da parte del Rappresentante del Governo - che per la norma fondamentale dell'art. 124 della Costituzione, riprodotta nell'art. 48 dello Statuto sardo, deve sovraintendere alle funzioni amministrative esercitate dallo Stato e coordinarle con quelle esercitate dalla Regione - non costituisce esercizio di controllo, ma semplicemente mezzo indispensabile per potere adempiere quella vigilanza che é insita nelle sue funzioni. Tale vigilanza, se pure può successivamente determinare una attività di controllo da parte dei competenti organi, non può per se stessa costituire un controllo, ed anche se é continua, non tocca né la libertà, né l'autonomia degli enti od amministrazioni. Tanto meno é confondibile con il controllo sugli atti degli enti locali, di competenza degli organi della Regione, di cui all'art. 46 dello Statuto.

Con l'ottavo ricorso viene sollevata una delicata questione in ordine al passaggio dei beni dello Stato alla Regione, regolato dall'art. 39 delle norme di attuazione.

Secondo la Regione, il passaggio della proprietà dei detti beni - e quindi anche la percezione dei relativi redditi - avrebbe dovuto effettuarsi, per il combinato disposto degli artt. 19 e 58 dello Statuto, dalla data di nascita della Regione medesima, e cioè dalla data di entrata in vigore dello Statuto (10 marzo 1948), e non già dal 1 gennaio 1950, come stabilisce il 1 comma dell'art. 39 delle norme di attuazione. Inoltre il 2 comma dell'art. 39 che esclude dagli elenchi dei beni trasferiti quelli del demanio marittimo, nonché le strade statali e relative pertinenze e i beni demaniali e patrimoniali connessi ai servizi di competenza statale e a monopoli fiscali o in uso dell'Amministrazione militare - sarebbe in contrasto con l'intero art. 14 dello Statuto, poiché negli elenchi dovevano essere compresi anche quei beni dei quali, pur passando alla Regione la proprietà, lo Stato conservava il possesso e l'uso. Subordinatamente si prospetta dalla Regione la ipotesi che l'art. 14 dello Statuto possa essere interpretato nel senso che sui beni in questione lo Stato abbia conservato un diritto temporaneo e risolubile di proprietà. Se tale ipotesi dovesse essere accolta, la Regione sostiene che ad essa spetterebbe, in tal caso, una proprietà potenziale sui beni predetti, cioè una legittima aspettativa meritevole di tutela giuridica, per cui, quanto meno, la Regione dovrebbe essere posta a conoscenza dei beni costituenti l'oggetto di tale sua proprietà potenziale. E ciò sia per reclamarne la consegna allo scadere del termine, sia per difendere la sua proprietà potenziale contro eventuali alienazioni a terzi, ecc.

Ora é da osservare che é vero che l'art. 14 dello Statuto stabilisce che la Regione, nell'ambito del suo territorio, "succede" nei beni e diritti patrimoniali dello Stato; ma l'espressione adoperata, "succede", sta semplicemente ad indicare il soggetto di diritto a beneficio del quale avviene il trasferimento e la natura giuridica del trasferimento stesso, ma del trasferimento non specifica il momento. Per determinare tale momento - e cioè l'effettivo passaggio della proprietà e degli altri diritti - bisogna perciò riferirsi ad altre disposizioni. Occorre ricordare che l'art. 61 delle stesse norme di attuazione (non impugnato) stabiliva, con una disposizione transitoria, che dalla data di cessazione dell'Alto Commissariato per la Sardegna e fino al 31 dicembre 1949, il Rappresentante del Governo avrebbe esercitato, anche per gli affari in corso, le attribuzioni amministrative già spettanti all'Alto Commissario e alla Consulta regionale: dal che deve desumersi che l'amministrazione dei beni fu tenuta fino al 31 dicembre 1949 dal Rappresentante del Governo, con le entrate e gli oneri relativi. In correlazione con la indicata data del 31 dicembre 1949, l'art. 53 delle stesse norme di attuazione (articolo anch'esso non impugnato) stabilisce: "Le entrate erariali di cui all'art. 8 dello Statuto saranno devolute alla Regione a decorrere dal 1 gennaio 1950. Dalla stessa data dovrà effettuarsi il trasferimento alla Regione dei servizi ad essa spettanti e degli oneri connessi". É ancora più precisamente - se pur ve ne fosse bisogno - si esprime il 3 comma del richiamato art. 53: "Fino al 31 dicembre 1949 il totale gettito delle entrate indicate nel primo comma sarà devoluto allo Stato, il quale provvederà al finanziamento dei servizi da trasferire alla Regione e metterà a disposizione della medesima le somme occorrenti per le spese di funzionamento degli organi regionali e di primo impianto degli uffici, salvo conguaglio". Si noti che fra le entrate della Regione, di cui all'art. 8 dello Statuto, richiamato dall'art. 53, sono espressamente indicati i "redditi patrimoniali". Dunque la data 1 gennaio 1950 risulta stabilita in concordanti disposizioni come quella del passaggio effettivo dei beni e diritti alla Regione, delle entrate - e delle spese, quindi non ha fondamento, di fronte alle ricordate esplicite disposizioni, l'impugnativa del 1 comma dell'art. 39 che stabilisce la data del 1 gennaio 1950 per la consegna dei beni dello Stato che passavano alla Regione, compresi i redditi che da tale data si producevano.

Nemmeno ha fondamento l'altra doglianza circa una presunta proprietà potenziale della Regione sui beni demaniali e patrimoniali connessi a servizi di competenza statale e a monopoli fiscali o in uso all'amministrazione militare. A parte la indeterminatezza del concetto di una proprietà potenziale riferita ai casi di specie, sta di fatto che il secondo comma dell'art. 14 - al quale articolo, come sopra si é visto, pur si é richiamata la Regione per sostenere le sue tesi - nel modo più chiaro stabilisce che i beni e diritti connessi a servizi di competenza statale, finché duri tale condizione, "restano allo Stato". E se "restano" allo Stato, in contrapposto al "succede" del 1 comma di tale art. 14, é evidente che lo Stato ne continua ad essere il proprietario finché non cessi la loro destinazione, e quindi i detti beni non potevano essere compresi negli elenchi di quelli dei quali veniva trasferita la proprietà alla Regione. Onde la legittimità costituzionale anche del 20 comma dell'art. 39 delle norme di attuazione.

Col nono ricorso la Regione impugna le disposizioni contenute nei due commi dell'art. 44 delle norme di attuazione. Il 1 comma stabilisce: "La Ragioneria regionale esercita le funzioni delle Ragionerie centrali per la gestione dei fondi comunque iscritti nel bilancio della Regione". E il 2 comma: "Il direttore della Ragioneria regionale é nominato con decreto del Ministro del Tesoro, su proposta del Ragioniere generale dello Stato, di concerto con il Presidente regionale".

A parte il rilievo che, nell'indicato modo, si é applicato alla Regione un ordinamento proprio dello Stato, il quale però accanto alla Ragioneria generale ha le Ragionerie centrali presso i singoli Ministeri, con attribuzioni e finalità ben precise, e quindi si é prescelto un tipo di organizzazione che la Regione può ritenere non confacente a quella propria, sta di fatto che effettivamente si é invasa una sfera di competenza propria della Regione, in quanto lo Statuto speciale all'art. 3, lett. a, attribuisce alla competenza propria della Regione l'ordinamento degli uffici e degli enti amministrativi della Regione. É noto che le Ragionerie centrali dei Ministeri, alle quali é stata assimilata per le sue funzioni la Ragioneria regionale, controllano, nei limiti della propria competenza, l'amministrazione dei Ministeri stessi e possono informare il Ministro del Tesoro in quei casi in cui, dopo di avere rifiutato di vistare un determinato atto, sono obbligate ad apporvi il visto per ordine scritto del Ministro (art. 64 R.D. 18 novembre 1923, n. 2440). In questo caso, il Ministro del Tesoro, può, a sua volta, sottoporre l'affare al Consiglio dei Ministri. Mettendosi la Ragioneria regionale nella stessa posizione delle Ragionerie centrali, verrebbe attribuito al Ministro del Tesoro un potere di ingerenza e di controllo - in contrasto con gli specifici controlli stabiliti nello Statuto speciale - sulla gestione del patrimonio regionale, analogo a quello che gli spetta con riguardo al patrimonio statale.

Il contrasto col potere autonomo della Regione - che trova la sua fonte nella citata lett. a dell'articolo 3 dello Statuto - appare ancora più evidente per l'ingerenza data col 2 comma dell'art. 44 in questione, delle norme di attuazione, al Ministro del Tesoro, al quale si attribuisce la nomina del direttore della Ragioneria regionale, facendo degradare il potere autonomo della Regione ad un semplice "concerto" con il Presidente regionale, per la detta nomina.

Tutti e due i commi dell'art. 44 debbono perciò essere dichiarati costituzionalmente illegittimi.

Il decimo ricorso riguarda l'art. 54 delle norme di attuazione. Tale articolo dispone: "Le attività svolte dalla Regione con speciali contributi dello Stato saranno soggette alla vigilanza delle amministrazioni statali, tecniche e finanziarie, secondo norme da determinarsi con provvedimenti del Ministro competente, udita la Giunta regionale, sempre che leggi dello Stato non dispongano diversamente".

Anche rispetto a questa norma, la Regione si lamenta di una indebita ingerenza dello Stato nella sfera delle proprie attribuzioni amministrative, con violazione degli artt. 3, 4 e 6 dello Statuto speciale, e rileva che, mentre la Costituzione (art. 125) prevede l'esercizio in forma decentrata di controlli di legittimità e di merito sugli atti delle Regioni a statuto ordinario, si sarebbe qui in presenza di un ampio controllo, in forma accentrata, sulla legittimità e sul merito. Osserva, inoltre, che con la disposizione in esame si giunge ad affidare ad un organo dello Stato la competenza a dettare norme concernenti atti di amministrazione e, per giunta, l'organo competente ad emanare tali norme é un Ministro ed é lo stesso organo controllore che determinerebbe da sé i limiti e la procedura del proprio sindacato.

Ora queste doglianze si appalesano infondate, sol che si rifletta che con le disposizioni dell'art. 54 in parola non si istituisce nessun controllo dello Stato sugli atti amministrativi della Regione riguardanti la materia di cui si tratta. Già questa é limitata nel suo oggetto, in quanto riguarda le attività svolte dalla Regione con speciali contributi dello Stato, e con l'articolo in esame si sottopongono siffatte attività non già a controllo ma a semplice "vigilanza" delle Amministrazioni statali tecniche e finanziarie. Ma occorre notare che, in questo caso non si tratta delle ordinarie entrate della Regione, di cui all'art. 8 dello Statuto speciale bensì di "speciali contributi" dello Stato, al di fuori di quelle entrate, onde pienamente si giustifica la vigilanza delle Amministrazioni statali, che non si esplica quale potere sostitutivo degli ordinari controlli della Regione - che non subiscono alcuna menomazione - ma che ha l'unica finalità di accertare che l'erogazione di quei contributi raggiunga lo scopo per il quale i medesimi vengono concessi. Si tratta perciò di una collaborazione con la Regione in attività nelle quali lo Stato, che somministra i fondi, non é estraneo, collaborazione che viene esercitata d'accordo con la Regione, dato che anche le disposizioni per l'esercizio della detta vigilanza debbono adottarsi udita la Giunta regionale. Se tale é il contenuto di questo potere di vigilanza - che non può confondersi col potere di controllo inteso nel suo preciso significato giuridico - cade anche la osservazione della difesa della Regione, che sarebbe lo stesso organo di controllo che determinerebbe da se stesso i limiti e la procedura del proprio sindacato. Porre i limiti e stabilire le forme di una semplice vigilanza, udita la Giunta regionale, in ordine ad attività connesse alla concessione di speciali contributi, non può ritenersi illegittimo, e ciò tanto più in quanto nell'ultima parte dell'impugnato art. 54 espressamente si stabilisce che le norme relative a quella vigilanza debbono determinarsi con provvedimento del Ministro competente "sempre che le leggi dello Stato non dispongano diversamente". Fra le leggi dello Stato é ovviamente compreso lo Statuto speciale della Sardegna, che adeguatamente tutela l'autonomia della Regione e disciplina l'estensione e i limiti degli ordinari controlli e della Regione e dello Stato.

Con l'ultimo degli undici ricorsi la Regione sarda impugna di illegittimità costituzionale l'art. 56 delle norme di attuazione.

Col 1 comma del detto articolo si dispone: "I piani territoriali di coordinamento sono compilati a cura dell'Ente Regione in base ai criteri indicati nell'art. 6 della legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150, e sono approvati con decreto del Presidente della Regione, su proposta del Ministro per i lavori pubblici, sentito il Consiglio superiore dei lavori pubblici". E col 2 comma: "I piani regolatori comunali, compilati e pubblicati a tenore delle disposizioni contenute nella suindicata legge urbanistica, sono approvati con decreto del Presidente della Giunta regionale, previo esame e parere del Consiglio superiore dei lavori pubblici".

La Regione, con riferimento, specialmente, alle lettere a ed f dell'art. 3 e all'art. 6 dello Statuto speciale, osserva, sul primo comma, che la conservazione della competenza del Ministro dei lavori pubblici limiterebbe i poteri della Regione e contrasterebbe col precetto statutario che attribuisce la materia edilizia e urbanistica alla legislazione regionale; e, sul secondo comma, che la disposizione in esso contenuta, concernendo da un lato l'organizzazione di uffici regionali e dall'altro la materia urbanistica, invaderebbe la competenza regionale.

Contro siffatti rilievi devesi osservare, che é pacifico - e risulta testualmente dall'art. 5 della legge sull'urbanistica, 17 agosto 1942, n. 1150 - che i piani territoriali di coordinamento riguardano "parti del territorio nazionale". Non può pertanto escludersi che vi sia un interesse generale a che l'urbanistica di una intera Regione si armonizzi con quella dei territori di altre Regioni. Di qui la necessità dell'intervento dello Stato in sede di coordinamento. E da rilevare altresì che l'elaborazione dei piani territoriali di coordinamento é in correlazione evidente con lo sviluppo delle principali linee di comunicazione, stradali, ferroviarie, marittime, aeree, con l'impianto di zone da riservare a speciali destinazioni, con la scelta di località da riservare ad impianti di particolare natura ed importanza. A questi vincoli e alla necessità del coordinamento in sede nazionale non é estranea la Sardegna, nonostante che il suo territorio sia tutto circondato dal mare. D'altra parte questi piani, secondo la precisa disposizione dell'art. 56, sono compilati dalla stessa Regione, che ha così modo di tener conto di ogni proprio diritto od interesse.

Quanto alla disposizione contenuta nel secondo comma dello art. 56, riguardante i piani regolatori comunali, é da rilevare che l'intervento degli organi statali si sostanzia esclusivamente nel preventivo esame e parere del Consiglio superiore dei lavori pubblici. Tale parere, ancorché obbligatorio, non é vincolante per il Presidente della Giunta regionale, al quale solo, con la norma dell'art. 56, é devoluta l'approvazione dei piani regolatori comunali in questione. Pertanto anche questa disposizione non può dirsi in contrasto con le prescrizioni statutarie.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

pronunziando con unica sentenza nei giudizi riuniti relativi agli undici ricorsi, elencati in epigrafe, proposti dal Presidente della Giunta regionale della Sardegna contro il Presidente del Consiglio dei Ministri:

1) respinge l'eccezione di inammissibilità dei ricorsi sollevata dall'Avvocatura generale dello Stato;

2) in parziale accoglimento del primo ricorso, dichiara la illegittimità costituzionale della norma contenuta nel primo comma dell'art. 1 del decreto del Presidente della Repubblica 19 maggio 1949, n. 250 (Norme di attuazione dello Statuto speciale per la Sardegna);

3) in accoglimento del quinto ricorso, dichiara la illegittimità costituzionale delle norme contenute nell'art. 11, lettere a, c e d del D.P.R. 19 maggio 1949, n. 250;

4) in accoglimento del sesto ricorso, dichiara la illegittimità costituzionale delle norme contenute negli articoli 19 e 20 del D.P.R. 19 maggio 1949, n. 250;

5) in accoglimento del nono ricorso, dichiara la illegittimità costituzionale delle norme contenute nell'art. 44 del D.P.R. 19 maggio 1949, n. 250;

6) respinge il primo ricorso in ordine al secondo comma dell'art. 1 del detto decreto, e tutti gli altri ricorsi.

 Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 29 giugno 1956.

 

Enrico DE NICOLA - Gaetano AZZARITI - Giuseppe CAPPI - Tomaso PERASSI - Gaspare AMBROSINI - Ernesto BATTAGLINI - Mario COSATTI  - Francesco PANTALEO GABRIELI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Antonino PAPALDO - Mario BRACCI - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO.

 

Depositata in cancelleria il 16 luglio 1956.