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Conflitto di attribuzioni

tra Il Presidente della Repubblica e il Ministro della Giustizia

in ordine alla titolarità dell’attribuzione costituzionale

di concessione della grazia

 

RICORSO

del Presidente della Repubblica, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato giusta decreto presidenziale 7 giugno 2005 e presso la medesima domiciliato in Roma, Via dei Portoghesi 12;

avente ad oggetto conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del ministro della Giustizia, in relazione al rifiuto, da questi opposto, di dare corso alla determinazione, da parte del Presidente della Repubblica, di concedere la grazia ad Ovidio Bompressi, come risultante dalla nota del 24 novembre 2004 inviata dal ministro medesimo al Capo dello Stato.

FATTO

Con nota dell’8 novembre 2004 il Presidente della Repubblica, premesso di avere ricevuto ed esaminato la documentazione sull’istruttoria relativa all’istanza di grazia presentata da Ovidio Bompressi – documentazione la cui acquisizione era stata richiesta dal Presidente con note del 30 marzo 2004 e del 4 giugno 2004 – ha manifestato al ministro della Giustizia di essere pervenuto “alla determinazione di concedere al Bompressi la grazia della pena detentiva residua”, ed ha invitato pertanto il ministro a predisporre “il relativo decreto di concessione della grazia, per la successiva emanazione”.

Con nota del 24 novembre 2004 il ministro della Giustizia ha comunicato al Capo dello Stato di non poter aderire a questa richiesta, “non … condivisibile né sotto il profilo costituzionale né nel merito”, argomentando tale rifiuto sul presupposto che “la Costituzione vigente pone in capo al ministro della Giustizia la responsabilità di formulare la proposta di grazia”.

Il Presidente della Repubblica non ritiene di poter condividere la tesi del Ministro, in quanto il potere di grazia che la Costituzione attribuisce al Capo dello Stato verrebbe posto nel nulla dalla mancata formulazione della proposta da parte dello stesso ministro. Tale tesi, se accettata, condurrebbe alla spoliazione della prerogativa di “concedere grazia” riservata espressamente e in via esclusiva al Capo dello Stato dall’articolo 87 della Costituzione; né la Costituzione, e neppure la legge, infatti, richiedono la “proposta” del Ministro della Giustizia ai fini della concessione della grazia. Sicché, una volta che il Presidente della Repubblica sia pervenuto alla determinazione di concedere la grazia ad un condannato, tanto la predisposizione del relativo decreto quanto la successiva controfirma costituiscono, per il ministro della Giustizia, “atti dovuti”.

In virtù del decreto in epigrafe del Capo dello Stato, l’avvocatura generale dello Stato eleva pertanto, con il presente ricorso, conflitto ai sensi degli articoli 37 e ss. dalla legge n. 87 del 1953, per violazione degli articoli 87 e 89 Costituzione.

DIRITTO

1 Sull’ammissibilità del ricorso.

1.1 Sotto il profilo soggettivo.

La spettanza della qualificazione di potere dello Stato in capo al Presidente della Repubblica, odierno ricorrente, è del tutto pacifica.

Per quanto concerne il Ministro della Giustizia, la legittimazione di tale organo ad essere parte in un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato è stata costantemente affermata da codesta Corte costituzionale, in ragione del ruolo istituzionale di Guardasigilli che la costituzione ad esso attribuisce (così, ex multis, Corte costituzionale sent. n. 379 del 1992; Corte costituzionale, ord. n. 216 del 1995; Corte costituzionale sent. n. 380 del 2003).

Le competenze che l’articolo 110 Costituzione riserva al ministro della Giustizia vengono in rilievo, ai fini del presente conflitto, soprattutto in relazione al momento istruttorio, di sua specifica competenza, delle domande di grazia, a quello di controllo della regolarità formale del decreto presidenziale ed a quello della sua esecuzione.

1.2 Sotto il profilo oggettivo.

Il Presidente della Repubblica rivendica, con il presente atto, l’integrità delle proprie esclusive attribuzioni costituzionali nell’esercizio del potere di concessione della grazia, attribuzione che è stata lesa dal rifiuto, da parte del ministro della Giustizia, di predisporre il relativo decreto di concessione nonché di controfirmarlo.

Non v’è dubbio, pertanto, che anche sotto il profilo oggettivo ricorrano i presupposti di cui all’articolo 37 della legge n. 87 del 1953.

2. Nel merito: violazione degli articoli 87 e 89 della Costituzione.

2.1 Occorre innanzitutto rilevare che il ministro della Giustizia, nel rifiutare di formulare la proposta di grazia in favore di Ovidio Bompressi, ritenendola presupposto indispensabile del relativo decreto di concessione, ha rivendicato a sé il potere di interdire con la sua decisione (o addirittura con la sua inerzia) l’esercizio del potere presidenziale di concessione della grazia, così attribuendosi un sostanziale potere di codecisione, che è, viceversa, assente nel vigente ordinamento costituzionale: l’articolo 87 della Costituzione è in equivoco nel conferire in via esclusiva al Capo dello Stato ogni potere decisionale in materia (“Il Presidente della Repubblica … può concedere grazia e commutare le pene”).

Siffatta titolarità esclusiva in capo al Presidente della Repubblica del potere di concessione della grazia, affermata da autorevolissima dottrina, è confermata del resto, da una serie di considerazioni di ordine logico-giuridico, oltre che sistematico.

2.1.1. Occorre anzitutto considerare che l’istituto della grazia, il quale consiste in una eccezionale deroga all’esecuzione della pena inflitta nella sentenza di condanna, è connotato da una ratio eminentemente umanitaria ed equitativa, in quanto è ispirato all’esigenza, da sempre presente in ogni ordinamento, di attenuare l’applicazione della legge penale in tutte quelle ipotesi nelle quali essa viene a configgere con il più alto sentimento della giustizia sostanziale. Si tratta certamente di ipotesi non classificabili ex ante, ma da individuarsi con riferimento alle peculiarità del singolo caso concreto.

La concessione della grazia esula quindi del tutto da valutazioni di natura politica, e tanto meno può essere riconducibile all’indirizzo politico della maggioranza di governo (sulla finalità “umanitaria” della grazia si vedano per tutte Corte costituzionale sent. n. 134 del 1976 e Corte costituzionale ordinanza n. 388 del 1987).

Va anche ricordato, a questo riguardo, quanto afferma in proposito la relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale del 1988 nel commento all’articolo 672, divenuto articolo 681 nel testo definitivo: “Sul piano processuale e sostanziale l’istituto della grazia assolve una funzione correttivo-equitativa dei rigori della legge, ma anche e sempre più il ruolo di strumento di risocializzazione alla luce dei risultati del trattamento rieducativi”.

Se così è, allora è naturale che l’esercizio di un potere di tale elevata e delicata portata venga riservato in via esclusiva al Capo dello Stato, quale organo rappresentante dell’unità della nazione: trattasi di potere, del resto, che in tutti i regimi ed in tutte le epoche è stato riconosciuto come parte inscindibile delle prerogative proprie della massima autorità dello Stato.

Ciò tanto più nel vigente ordinamento costituzionale, nel quale il Presidente della Repubblica, per il suo ruolo istituzionale di garante super partes della Costituzione, è l’unico organo che offra la garanzia di un esercizio imparziale del potere di grazia.

Il Ministro della Giustizia, pertanto, è soltanto il ministro “competente” che collabora con il Capo dello Stato nelle varie fasi del procedimento, contribuendo alla formazione della volontà presidenziale nell’ambito delle sue specifiche attribuzioni (contributi istruttori, valutativi ed esecutivi). Tanto anche ai fini della formazione di una auspicabile accordo sulla opportunità e sui contenuti del decreto di grazia. Resta fermo però che, atteso il ruolo prevalentemente ed essenzialmente istruttorio spettante al Ministro nel procedimento in questione, in mancanza dell’accordo, devono comunque prevalere le istanze di cui è portatore il Presidente della Repubblica quale titolare del potere di giustizia.

2.1.2. Del resto, che la grazia debba essere connotata essenzialmente da una ratio equitativo-umanitaria, è confermato in maniera incontrovertibile da un raffronto sistematico con gli istituti (anch’essi “elemenziali”) dell’amnistia e dell’indulto.

Occorre infatti considerare che nel testo originario della Costituzione – prima della modifica dell’articolo 79 operata con legge costituzionale n. 1 del 1992 - anche l’amnistia e l’indulto erano concessi con decreto del Presidente della Repubblica: tuttavia, nella specie, tale decreto doveva essere emanato “su legge di delegazione delle Camere”.

Tale diversa disciplina dimostra chiaramente che, pur affidando tutti i provvedimenti di clemenza alla firma del Capo dello stato, il Costituente aveva inteso distinguere nettamente le ipotesi dell’amnistia e dell’indulto, da quella della grazia. Amnistia ed indulto non potevano essere disposti senza un preventivo intervento politico del Parlamento. A causa delle rationes tradizionalmente sottese all’istituto per la grazia, ogni intervento politico doveva e deve ritenersi invece per essa precluso.

2.1.3. Né varrebbe far leva, al fine di riconoscere in capo al Ministro della Giustizia dei poteri di natura sostanziale (id est, di sindacato nel merito) in ordine alla concessione della grazia, sul disposto dell’articolo 89 Costituzione, a mente del quale “nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti, che se ne assumono la responsabilità”.

Infatti, per quanto concerne il profilo della asserita necessità della proposta ministeriale, è sufficiente rilevare che la migliore dottrina ha ormai da tempo osservato che l’espressione “ministri proponenti”, in luogo della più corretta “ministri competenti”, è imputabile ad un uso improprio della locuzione “ministri proponenti”.

Codesta stessa Corte costituzionale, nell’ordinanza n. 388 del 1987, parafrasando il dettato dell’articolo 89 della Costituzione in relazione al provvedimento di grazia ha fatto riferimento al “ministro competente” anziché al “ministro proponente”.

Del resto, con specifico riguardo alla grazia, è del tutto pacifico in dottrina che l’iniziativa ai fini della concessione del provvedimento di clemenza ben può partire (come è avvenuto nel caso di specie) dal Capo dello Stato, senza che sia indispensabile una formale proposta ministeriale.

Ne consegue che non sono condivisibili le argomentazioni con cui il ministero della Giustizia ha motivato il proprio rifiuto di dare corso alla determinazione presidenziale di concedere la grazia ad Ovidio Bompressi, in particolare l’affermazione che “la Costituzione vigente pone in capo al ministro della Giustizia la responsabilità di formulare la proposta di grazia”, e che pertanto questi sarebbe “titolare esclusivo del potere di proposta”..

Per quanto riguarda il profilo della necessità che anche il decreto di grazia sia controfirmato la dottrina è unanime nel riconoscere che la controfirma ministeriale assume un significato radicalmente diverso a seconda del tipo di atto presidenziale cui viene apposta.

Ed invero, con riferimento agli atti formalmente presidenziali ma sostanzialmente governativi – i quali costituiscono di gran lunga la maggioranza (si pensi, a titolo esemplificativo, ai decreti di emanazione degli atti aventi forza di legge e dei regolamenti nonché a quelli di nomina dei funzionari dello Stato nei casi indicati dalla legge) – la controfirma ha il significato di attestare la effettiva paternità dell’atto e la conseguente assunzione di responsabilità politica, in quanto il Capo dello Stato si limita ad un mero controllo di legittimità, oltre che di provenienza.

Viceversa, le posizioni dei due organi costituzionali risultano sostanzialmente invertite con riguardo agli atti formalmente e sostanzialmente presidenziali, tra i quali rientrano la nomina dei giudici costituzionali e dei senatori a vita, l’invio di messaggi alla Camere ai sensi dell’articolo 87 della Costituzione e la richiesta di riesame di una legge ai sensi dell’articolo 74, comma 2, della Costituzione; in tali casi la controfirma ministeriale si presenta con un atto dovuto, in quanto ha una funzione, per così dire, notarile,di mera attestazione di provenienza dell’atto da parte del Capo dello Stato, oltre che di controllo della sua regolarità formale. Pertanto una volta chiarito che la concessione della grazia per le ragioni che precedono è un potere sostanzialmente presidenziale, non può dubitarsi che la controfirma del ministro della Giustizia, competente ratione materiae, costituisca anch’essa un atto dovuto, che il ministro stesso non può rifiutare.

Ex ante, partecipando il ministro al relativo procedimento essenzialmente in funzione prodromica e strumentale attraverso l’attività istruttoria, la funzione della controfirma costituisce mera attestazione di regolarità formale dell’atto.

Infatti, se si riconoscesse che la proposta del ministro è essenziale per avviare una procedura di grazia, si attribuirebbe al ministro stesso un potere di interdizione e quindi di “veto” assoluto sull’esercizio del potere presidenziale consacrato nell’articolo 87 della Costituzione. Si avrebbe, inoltre, una indebita ingerenza nell’esecuzione della pena, che nell’ordinamento vigente non è più consentita al potere esecutivo.

Ex post, la controfirma ministeriale sul decreto di grazia assume una funzione ulteriore che è quella di impegno a dare esecuzione alla decisione presidenziale.

2.1.4. Né sembra invocabile l’esistenza di una consuetudine costituzionale secondo cui la concessione del provvedimento di clemenza consegue a una collaborazione tra Presidente della Repubblica e Ministro della Giustizia.

Questa collaborazione tra Presidente della Repubblica e Ministro della Giustizia ha assunto infatti nel tempo forme e modalità diverse, collegate, tra l’altro, anche alle modifiche subite dalle norme dell’ordinamento penitenziario,che hanno progressivamente individuato nuovi percorsi di risocializzazione dei condannati e consentito l’applicazione di misure alternative alla detenzione, ad opera della magistratura. Le nuove norme di ordinamento penitenziario hanno così restituito all’istituto della grazia la sua intima natura equitativo-umanitaria e hanno consentito – come è reso evidente dalla drastica riduzione del numero delle grazie concesse – che esso perdesse le finalità di politica penitenziaria che l’avevano a volte in precedenza pervaso.

Un’ultima considerazione: è noto che per lungo tempo è invalsa una prassi per cui, a fronte di una istanza di grazia rispetto alla quale il Ministro della Giustizia riteneva non sussistenti i presupposti per la concessione del provvedimento di clemenza, il ministro stesso si limitava ad “archiviare” la relativa pratica, senza neppure informarne il Capo dello Stato.

Tale prassi, che finiva per attribuire in qualche misura al ministro della Giustizia dei poteri di decisione sostanziale in materia, è venuta meno negli ultimi anni, posto che con nota del 15 ottobre 2003 il Presidente della Repubblica ha formalmente chiesto al ministro della Giustizia – il quale ha immediatamente manifestato la propria adesione con nota del 17 ottobre 2003 – di essere informato della conclusione di tutte le istruttorie relative ad istanze di grazia, ai fini delle sue decisioni.

2.1.5. Un ulteriore argomento in favore della natura esclusivamente presidenziale del potere di concedere la grazia è desumibile dalla giurisprudenza di codesta Corte costituzionale, la quale, in ossequio al superiore principio di separazione dei poteri e di necessaria “giurisdizionalizzazione”della fase esecutiva delle sanzioni penali, ha dichiarato a più riprese l’illegittimità costituzionale di numerose disposizioni che contemplavano competenze dell’esecutivo (e cioè quindi del Ministro della Giustizia) nella fase di esecuzione della pena (cfr. Corte costituzionale sent. n. 110 del1974, relativa al potere di revoca delle misure di sicurezza ex art. 207 del codice penale; Corte costituzionale sent. n. 204 del 1974 e Corte costituzionale sent. n. 192 del 1976, relative al potere di differire l’esecuzione della pena ex art. 147 del codice penale).

Di tal che non potrebbe non apparire contraddittorio riconoscere oggi al Ministro della Giustizia poteri decisionali veri e propri in ordine alla concessione della grazia; provvedimento che, pur essendo connotato da una ratio del tutto peculiare, incide certamente sull’esecuzione della pena.

Il principio di separazione dei poteri (e della correlativa distinzione delle funzioni) non risulta, invece, vulnerato dal riconoscimento di siffatte attribuzioni in via esclusiva, al Presidente della Repubblica, in ragione del ruolo istituzionale di garante super partes che a tale organo assegna la Costituzione.

2.1.6. Da ultimo, la tesi della esclusiva pertinenza presidenziale del potere di concedere la grazia è stata implicitamente condivisa da codesta Corte nella già citata sent. n. 274 del 1990.

In quella sede, infatti, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale delle disposizioni del codice di procedura penale che attribuivano al ministro della Giustizia e non al tribunale di sorveglianza il potere di disporre il differimento dell’esecuzione della pena ai sensi dell’art. 147, comma 1. n. 1 del codice penale (e cioè nelle ipotesi in cui venga presentata domanda di grazia), - codesta Corte ha disatteso apertis verbis la tesi affermata nella relazione ministeriale al progetto definitivo del codice di procedura penale, secondo cui l’attribuzione di tale potere (di differimento dell’esecuzione della pena) al Ministro della giustizia doveva ritenersi giustificata sulla base della considerazione che “la prognosi favorevole sulla concedibilità del beneficio (della grazia – ndr) può essere effettuata soltanto dall’organo che nella prassi costituzionale esercita il relativo potere”.

Codesta Corte ha in proposito, affermato che “non (vi sono) vincoli costituzionalmente determinati per l’esercizio del potere di grazia da parte del Presidente della Repubblica”, così chiaramente escludendo l’esistenza di qualsivoglia potere decisionale da parte del Ministro della Giustizia (o comunque di sindacato nel merito).

In definitiva, alla luce delle considerazioni che tutte precedono, non si può dubitare che il potere di concessione della grazia, nel vigente ordinamento costituzionale, sia riservato in via esclusiva al Capo dello Stato, e che quindi il rifiuto, opposto dal Ministro della Giustizia nella nota del 24 novembre 2004, di dare corso alla determinazione del Presidente della Repubblica di concedere la grazia ad Ovidio Bompressi costituisca una rivendicazione di poteri insussistenti in capo al Ministro medesimo.

2.2 D’altronde, il Ministro è sicuramente titolare di poteri istruttori ma questi non possono che concludersi, al più, con una valutazione. In base al principio di leale collaborazione tra le istituzioni, egli esprime il proprio parere al Presidente della Repubblica al più di pervenire a un provvedimento condiviso. Con la conseguenza che, nel caso in cui tale condivisione non si verificasse anche dopo aver esperito un adeguato confronto sui presupposti (che nel caso di specie, riguardante Ovidio Bompressi, si è svolto), la volontà prevalente e quindi la decisione finale non possono che essere quelle del titolare del potere costituzionale di grazia e cioè del Presidente della Repubblica.

Nel contesto delineato la decisione di codesta Corte costituzionale, oltre a dirimere il conflitto insorto, verrà ad assumere il precipuo scopo di fare chiarezza definitiva su un punto importante dell’interpretazione della Costituzione, già oggetto di dibattiti dottrinali di grande rilevanza.

Quanto precede premesso e ritenuto, il ricorrente

Chiede

Che l’Ecc.ma Corte adita dichiari che non spetta al Ministro della Giustizia il potere di rifiutare di dare corso alla determinazione alla quale il Capo dello Stato è pervenuto, di concedere la grazia ad Ovidio Bompressi e che, conseguentemente, annulli l’atto di cui alla nota del 24 novembre 2004 del ministro della Giustizia.

 

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