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Corte di Cassazione, Sez. unite civili

sentenza 14 marzo 2011, n. 5924

 

Pres. ff. De Luca, Rel. Segreto - T.L. (Avv.ti Pierdominici, Corsetti e Mantero) c. Ministero della Giustizia e Procura Generale presso la Corte Suprema di Cassazione (Avv.ra Stato) - (rigetta il ricorso avverso la sentenza del Consiglio Superiore della Magistratura del 25 maggio 2010, n. 88).

 

Svolgimento del processo

 

La Sezione disciplinare del CSM procedeva disciplinarmente contro il magistrato dr. T.L. per l'illecito disciplinare di cui al R.D. n. 511 del 1946, art. 18, tipizzato a decorrere dal 19.6.2006 - dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1, e art. 2 lett. n. ed r, perché in violazione dei doveri istituzionali e professionali di diligenza e laboriosità, con grave e reiterata inosservanza delle disposizioni relative alla prestazione del servizio giudiziario, si sottraeva ingiustificatamente ed abitualmente dall'attività giurisdizionale, che era chiamato a svolgere, astenendosi dalla trattazione di 15 udienze nel periodo maggio - luglio 2005 e successivamente nei giorni 8, 12 e 13 luglio 2005 (proc. disciplinare n. 22/05), nonchè per le condotte innanzi dette fino al 31.1.2006 (quando veniva sospeso dalle funzioni dalla Sezione disciplinare) in altre 4 udienze (proc. disciplinare n. 37/09), con rifiuto di tenere le udienze nello stesso giorno o nell'immediata prossimità, così determinando la necessità delle relative sostituzioni, grave perturbamento dell'attività dell'ufficio ed estrema difficoltà del prosieguo dell'attività giurisdizionale per i procedimenti affidati. Il dr. T. veniva incolpato anche perchè, con tale condotta, assertivamente motivata dalla presenza del crocefisso nelle aule del tribunale di Camerino e persistita nonostante la messa a disposizione da parte del presidente del Tribunale di un'aula priva di simboli religiosi, era venuto meno al dovere fondamentale di svolgimento della funzione ed aveva compromesso la credibilità personale ed il prestigio dell'istituzione giudiziaria.

 

La Sezione, con sentenza depositata il 25.5.2010, affermava la responsabilità del dr. T. per l'incolpazione ascrittagli e gli applicava la sanzione della rimozione. Riteneva la Sezione, ai fini che qui interessano, che era infondata l'eccezione di illegittimità della sospensione del procedimento disciplinare e la conseguente caducazione dell'azione per decorrenza del termine annuale; che il proscioglimento in sede penale, perché il fatto non sussiste, atteneva solo al profilo penale dei fatti contestati, mentre rimaneva autonomo il profilo della valutazione disciplinare degli stessi fatti, costituiti dal rifiuto ingiustificato di tenere udienza. Nel merito riteneva la Sezione che oggetto del procedimento non era la verifica della compatibilità tra i principi di laicità dello Stato e la presenza del crocifisso nelle aule, ma la compatibilità del rifiuto del dr. T. di tenere udienza - determinato dal fatto che in altri luoghi la giustizia era amministrata in presenza del simbolo religioso - ed il rispetto delle regole organizzative del servizio e delle esigenze funzionali del corretto svolgimento dell'esercizio delle funzioni giurisdizionali.

 

Riteneva la Sezione che la presenza del crocefisso, indipendentemente dalla legittimità o vigenza della norma regolamentare che la prevede, non determinava in per il solo fatto di essere generalmente osservata nelle aule giudiziarie della Nazione, una lesione diretta del fondamentale diritto soggettivo di libertà religiosa e di opinione del dr. T., che poteva essere messa in discussione solo se gli si fosse stato imposto l'obbligo di esercitare la giurisdizione, in contrasto con le sue più profonde e radicate convinzioni, in un'aula in cui vi era la tutela simbolica religiosa. La Sezione, quindi, affermava la responsabilità disciplinare del dr. T. per aver rifiutato di esercitare le funzioni giurisdizionali (finchè l'amministrazione giudiziaria non avesse accolto la sua richiesta scritta dell'1.5.2005 di rimozione del crocefisso da tutti gli uffici giudiziarì), anche allorchè gli era stato formalmente comunicato di esercitarle nel proprio ufficio ovvero, successivamente, nell'aula predisposta senza simboli religiosi e ritenuta dalla stessa Sezione egualmente dignitosa e fruibile da tutti magistrati del tribunale, che lo avessero voluto.

 

Secondo la Sezione il dr. T. aveva mancato gravemente ai propri doveri, mostrando faziosità, aggressività verbale e scarso equilibrio, pur avendo già subito 4 condanne disciplinari(3 ammonimenti ed una censura). La Sezione riteneva di infliggere la sanzione della rimozione, tenendo conto della gravità del fatto e della determinazione dell'incolpato, che aveva dichiarato di non deflettere da tale comportamento neanche in futuro, se gli fosse stata data occasione di rinnovare, con la restituzione delle funzioni, il rifiuto di esercitarle.

 

Avverso questa sentenza proponeva 2 ricorsi per cassazione il dr. T..

 

Gli intimati non hanno svolto attività difensiva.

 

Motivi della decisione

 

1.1. Preliminarmente va dichiarato inammissibile il ricorso proposto personalmente dal ricorrente dr. T.L., con deposito in cancelleria del 20.9.2010 e non notificato ad alcuno. Infatti in terna di procedimento disciplinare nei confronti di magistrati, la disciplina transitoria di cui al D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 32 bis, introdotto dalla L. n. 269 del 2006, art. 1, comma 3, lett. q), non riguarda le sentenze emesse dal Consiglio Superiore della Magistratura nei procedimenti promossi anteriormente al 19 giugno 2006 (data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 109 del 2006), le quali sono impugnabili innanzi alle Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione, nelle forme previste dal codice di rito civile e non in quelle previste dal codice di procedura penale e nel termine di cui al D.P.R. n. 916 del 1958, art. 60, tanto nel caso in cui il provvedimento sia stato pronunciato prima dell'entrata in vigore del D.Lgs. n. 109, quanto nel caso in cui esso sia stato pronunciato successivamente (Cass. Sez. Unite, 01/10/2007, n. 20601; Cass. Sez. Unite, 03/08/2009, n. 17905; Cass. Sez. Unite, 03/08/2009, n. 17905).

 

Nella fattispecie correttamente la Sezione disciplinare rileva, quanto al regime normativo applicabile, che ì fatti contestati al dr. T. vanno dal maggio 2005 al 16 gennaio del 2006 e che l'azione disciplinare è stata promossa con riferimento al primo procedimento prima del 19 giugno 2006, data del'entrata in vigore del D.Lgs. e con riferimento al secondo in data successiva; che tuttavia, poichè si tratta di comportamenti della stessa natura e tenuti senza soluzione di continuità, non si può giustificare un'applicazione di regimi sostanziali e processuali diversi con riferimento ai due procedimenti, che tuttavìa applicando, a norma dell'art. 32 bis, la disciplina più favorevole, questa risulta essere quella del R.D. n. 511 del 1946.

 

Il punto non è stato peraltro fatto oggetto di censura, per cui è alla disciplina antecedente a quella disposta dal D.Lgs. n. 109 del 2006, che occorre far riferimento.

 

1.2. Ciò comporta, in relazione al ricorso proposto personalmente dal dr. T., che esso è inammissibile per due ordini di ragione.

 

Anzitutto esso è stato proposto personalmente dall'incolpato. E' invece, giurisprudenza di queste S.U., che va qui ribadita, che il principio secondo il quale la difesa personale della parte postula che abbia la qualità necessaria per esercitare l'ufficio di difensore con procura presso il giudice adito trova applicazione pure con riguardo al ricorso per cassazione avverso le decisioni del Consiglio superiore della magistratura in materia disciplinare (Cass. Sez. Unite, 12/06/2006, n. 13532).

 

1.3. Inoltre esso è inammissibile per non essere stato notificato ad alcuno (Cass. Sez. Unite, 01/10/2007, n. 20601).

 

1.4. Sennonchè nel caso in cui una sentenza sia stata impugnata con due successivi ricorsi per cassazione, è ammissibile la proposizione del secondo in sostituzione del primo, purchè l'improcedibilità o l'inammissibilità di quest'ultimo non sia stata ancora dichiarata, restando escluso che la mera notificazione del primo ricorso comporti, "ex se", la consumazione del potere d'impugnazione (Cass. Sez. 3^, 03/03/2009, n. 5053). Ne consegue che nella fattispecie questa Corte deve passare ad esaminare il ricorso proposto dai difensori del ricorrente e tempestivamente notificato il 6 ottobre 2010.

 

2. Per ragioni di ordine logico-processuale va esaminato, anzitutto, il motivo quattordicesimo, con il quale il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 916 del 1958, art. 59, commi 9 ed 11, R.D. n. 511 del 1946, art. 28, art. 3 c.p., e art. 185 c.p.p., e art. 111 Cost..

 

Assume il ricorrente che sussiste nella fattispecie la decadenza del procedimento disciplinare, perchè non era stato rispettato il termine annuale per la comunicazione all'incolpato del decreto che fissava la discussione orale davanti alla Sezione disciplinare.

 

Secondo il ricorrente il primo procedimento disciplinare era stato attivato il 22.9.2005 ed illegittimamente sospeso dal P.G. il i 14.3.2006 in attesa della definizione del processo penale per omissione di atti di ufficio; che in data 17.2.2009 era intervenuta la sentenza definitiva della cassazione di assoluzione "perchè il fatto non sussiste", mentre la notifica del decreto di fissazione dell'udienza di discussione era avvenuta il 22.12.2009. Sostiene, poi, il ricorrente che non sussiste il presupposto su cui si fonda la sospensione disposta dal P.G., poichè l'incolpazione disciplinare diverge dall'imputazione penale.

 

3.1. Il motivo è infondato e va rigettato.

 

Hanno statuito le S.U. di questa Corte che la norma del D.P.R. 16 settembre 1958, n. 916, art. 59, come modificato dalla L. 3 gennaio 1981, n. 1, art. 12, - per la quale l'azione disciplinare nei confronti del magistrato non può essere promossa dopo un anno dal giorno in cui il Ministro o il Procuratore generale hanno avuto notizia del fatto che forma oggetto dell'addebito disciplinare - si riferisce solo all'ipotesi di procedimento disciplinare non ricollegabile ad un procedimento penale, in corso od esaurito; ove invece sia iniziata l'azione penale nei confronti del magistrato trovano applicazione il R.D.L. 31 maggio 1946, n. 511, artt. 29 e 31, sui rapporti tra provvedimenti cautelari e definitivi di natura disciplinare e procedimento penale. Conseguentemente il Ministro di giustizia - quantunque abbia conosciuto i fatti contestati al magistrato fin da epoca risalente a più di un anno - può legittimamente richiedere alla Sezione disciplinare del CSM l'adozione della misura cautelare della sospensione dalle funzioni e dallo stipendio essendo in tal caso l'esercizio dell'azione disciplinare svincolato da termini perentori, restando collegato solamente alla pronuncia penale di condanna o di proscioglimento (Cass. civ., Sez. Unite, 08/08/1997, n. 7406).

 

Inoltre è principio consolidato che in, tema di procedimento disciplinare a carico di magistrati, l'alternatività - tra Ministro di Grazia e Giustizia e P.G. presso la Corte di cassazione - nell'iniziativa del promovimento della relativa azione comporta che l'eventuale decorso del termine annuale di decadenza per uno dei predetti titolari non estingue il potere di iniziativa dell'altro (Cass. S.U. n, 316/2007).

 

3.2. Questa giurisprudenza va condivisa, non essendovi ragioni per discostarsene e la sezione ne ha fatto corretta applicazione. Sulla base del precedente sistema normativo (applicabile alla sospensione disposta), la medesima notitia aveva determinato l'instaurazione del procedimento disciplinare e di quello penale, con la conseguenza che la decorrenza del termine annuale era computabile esclusivamente dal momento della conclusione del procedimento penale.

 

In relazione alla seconda azione disciplinare, come osserva la Sezione correttamente, le "dichiarazioni di rifiuto" depositate dal T. nell'udienza dibattimentale risultano indirizzate ai capi degli uffici del distretto ed al Ministero della Giustizia, e non investono entrambi i titolari dell'azione disciplinare. E' altresì esatta l'osservazione che la notizia del fatto non poteva identificarsi nelle singole segnalazioni di astensione dalle udienze, potendo dedursì la violazione del dovere funzionale solo dalla sistematicità delle astensioni dalla mera comunicazione dell'avvio di un procedimento penale (Cass. S.U. n. 7 94 7 del 2003).

 

3.3. Egualmente infondata è l'eccezione di illegittimità della sospensione disposta dal P.G..

 

Nel precedente sistema normativo, applicabile ratione temporis alla misura cautelare disposta, l'orientamento della giurisprudenza riconosceva all'apertura del procedimento penale per lo stesso fatto materiale oggetto dell'incolpazione disciplinare, efficacia sospensiva ipso iure del procedimento disciplinare e natura meramente dichiarativa al formale provvedimento di sospensione emesso dal Procuratore Generale, con la conseguenza della decorrenza del termine annuale per l'esercizio dell'azione dall'irrevocabilità della sentenza penale (Cass. S.U. n. 6613/1993; n. 13860/1991).

 

3.4. Infondato è anche l'assunto secondo cui nella fattispecie i fatti oggetto del procedimento penale fossero diversi da quelli posti a base del procedimento disciplinare.

 

Va, anzitutto, rilevato che, ai sensi della disposizione transitoria di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 32 bis, comma 1, deve ritenersi la persistente unicità dello stesso procedimento disciplinare promosso in base alla normativa anteriormente in vigore, quando, a seguito della pronuncia di una sentenza penale (di assoluzione o di condanna), i fatti oggetto del processo penale, già contestati anche in sede disciplinare, vengano ivi riformulati sia mediante la riduzione degli addebiti, sia mediante la valorizzazione di aspetti intrinseci alla vicenda oggetto dell'imputazione in sede penale, fermo restando in ogni caso che le semplici modificazioni dell'atto di incolpazione non determinano l'instaurarsi di un nuovo e diverso procedimento disciplinare (Cass. S.U. n. 17903 del 2009).

 

In ogni caso nella fattispecie, Cass. pen., Sez. 6^, 17/02/2009, n. 28482, emessa nei confronti del Dr. T., ha annullato senza rinvio per insussistenza del fatto la sentenza di appello rilevando che "Non integra il reato di omissione di atti d'ufficio il semplice inadempimento di un dovere funzionale interno all'organizzazione della P.A., ove non si traduca nella mancanza di un atto d'ufficio a rilevanza esterna, che sia altresì qualificato dalle ragioni indicate dalla norma incriminatrice e da compiersi senza ritardo".

 

Sulla base di tali principi la Corte ha ritenuto che la mancata celebrazione, da parte dell'imputato, quale giudice, di alcune udienze cui egli era tenuto, non abbia integrato il reato, giacchè tenute, in sua sostituzione, da altri magistrati a ciò appositamente designati. Ma proprio la corte ha rilevato, altresì, che " la condotta addebitata al dr. T. si è concretizzata nella violazione di doveri funzionali, riverberatisi esclusivamente, come la stessa sentenza impugnata riconosce sull'organizzazione interna dell'ufficio, nonchè che "la condotta addebitata al dr. T. si è concretizzata nella violazione di doveri funzionali, riverberatisi esclusivamente, come la stessa sentenza impugnata riconosce, sull'organizzazione interna all'ufficio...".

 

Ciò comporta che già dalla motivazione della stessa sentenza penale di questa Corte emergeva che l'esclusione della rilevanza penale dei fatti addebitati al dr. T. non comportava anche l'esclusione del rilievo disciplinare degli stessi. In ogni caso correttamente la Sezione disciplinare ha accertato che nella fattispecie sussistesse l'identità del fatto contestato sia in sede penale che in sede disciplinare.

 

Infatti anche in sede penale era stato contestato al dr. T. il reato di omissione di atti d'ufficio perchè, quale giudice presso il Tribunale di Camerino, si era indebitamente astenuto dalle udienze in cui avrebbe dovuto trattare senza ritardo per ragioni di giustizia procedimenti a lui assegnati ed aveva motivato tale sua decisione con l'illegittima presenza nell'aula d'udienza del "crocifisso", simbolo della cristianità, che si poneva in contraddizione con il principio costituzionale della "libertà di religione e di coscienza" e mortificava le esigenze di "neutralità" e "imparzialità" che dovevano, invece, essere garantite in forza dell'altro principio costituzionale di laicità dello Stato.

 

In sede disciplinare la materialità dei fatti (il non aver tenuto le udienze con conseguente disservizio) è la medesima anche se, giusto quanto indicato dalla stessa sentenza penale, si poneva l'accento sul piano della conseguenza della condotta e cioè essenzialmente sul grave perturbamento dell'attività dell'ufficio e sul disservizio conseguente.

 

4.1. Con il primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la nullità della sentenza per violazione dell'art. 185 c.p.p. 1930, n. 3, artt. 145, 305, e 477 c.p.p. 1930, degli artt. 24 e 111 Cost., e degli artt. 6 e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'Uomo, ratificata con L. n. 848 del 1955).

 

Assume il ricorrente che la Sezione disciplinare "aveva l'obbligo di decidere le eccezioni sollevate dal dr. T. e cioè di decidere se l'ostensione obbligatoria dei crocifissi nelle aule (di giustizia) ledesse o meno i diritti e le prerogative inviolabili del dr. T. e giustificasse poi il rifiuto di tenere le udienze, anche dopo l'allestimento dell'aula "ghetto". Assume il ricorrente che si era difeso dall'accusa, esponendo le ragioni che lo avevano costretto a rifiutarsi di tenere le udienze sotto l'imposizione dei crocifissi e persistere nel rifiuto anche dopo che gli era stata allestita un'aula senza crocifisso; che erroneamente la Sezione aveva ritenuto di non poter tener conto di tali giustificazioni, poichè il P.G. aveva riformulato l'incolpazione, con la conseguente irrilevanza dei fatti addotti da esso ricorrente.

 

Il ricorrente lamenta, altresì, il vizio di omessa pronunzia da parte della Sezione circa le giustificazioni del rifiuto, poichè questa aveva inflitto la condanna al dr. T. perchè si era rifiutato di tenere udienza in un'aula senza crocifisso, sia perchè tale rimedio non valeva a preservare il principio di laicità dello Stato ed i suoi diritti di libertà religiosa e di eguaglianza, anzi li aggravava perchè si realizzava una forma di ghettizzazione del non cattolico, sia perchè la motivazione dell'idoneità del rimedio dell'aula "ghetto" non poteva riguardare le udienze in data anteriore alla messa a disposizione di tale aula.

 

4.2. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente lamenta l'omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, circa il punto che manca la pronunzia sulle pretese sostanziali del dr. T. (se cioè diritti inviolabili o mere obiezioni di coscienza), e del perchè, in presenza di lesioni di diritti inviolabili, al funzionario dovrebbe essere vietato avanzare richieste ed ultimatum, perchè il confino in un'aula ghetto del dr. T. fosse idoneo a salvaguardare il principio supremo di laicità, come sancito anche da Cass. Pen. n. 4273/2000, con il contestuale divieto di esporre il proprio simbolo (la menorah ebraica).

 

4.3. Con il terzo motivo di ricorso il ricorrente lamenta l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio.

 

Assume il ricorrente che, poichè il rimedio al suo rifiuto era stato considerato l'apprestamento dell'aula senza crocifisso, ciò comportava che i rifiuti precedenti a tali allestimenti, e riguardanti 19 delle 25 udienze, erano legittimi, mentre egli aveva, riportato condanne per tutte le udienze non tenute. Secondo il ricorrente se si riteneva che la sua pretesa di non tenere udienza sotto il crocifisso era infondata, non aveva senso rimuoverle dalla magistratura, perchè non aveva accettato la proposta mediatoria di tenere udienza in un'aula senza crocifisso.

 

4.4. Con il quarto motivo di ricorso il ricorrente lamenta l'insufficienza della motivazione circa un fatto controverso, poichè, contrariamente a quanto ritenuto implicitamente dalla sentenza impugnata, egli era stato costretto ad esercitare la sua giurisdizione sotto la "tutela simbolica" dei crocifissi, mentre il contrario poteva trarsi da una lettera del presidente del tribunale di Camerino del 23.12.2003 nonchè dagli atti del procedimento davanti al Tar Marche, instaurato dallo stesso dr. T. e conclusosi con la dichiarazione del difetto di giurisdizione, in merito alla lamentata lesione di diritti soggettivi.

 

4.5. Con il quinto motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 Cost.

 

relativi alla laicità dello Stato. La violazione e falsa applicazione dell'art. 19 Cost., e della L. n. 848 del 1955, art. 9, (sul diritto di libertà religiosa) del D.Lgs. n. 216 del 2003, art. 2, della L. n. 654 del 1975, art. 3, del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 43, della L. n. 302 del 1997, artt. 1, 4, 5, 6, 7 ed 8, e della L. n. 101 del 1989, art. 2, (diritto di eguaglianza e di non discriminazione). Violazione e falsa applicazione dell'art. 2 Cost., ed artt. 1, 9, 13 e 17 Convenzione dei diritti dell'uomo, degli artt. 52 e 54 c.p., artt. 2044, 2045 e 1460 c.c.. Violazione e falsa applicazione dell'art. 629 c.p..

 

Assume il ricorrente che, sulla base del principio supremo di laicità dello Stato e del diritto di libertà religiosa, nonchè del diritto di eguaglianza e di non discriminazione, egli ben poteva rifiutarsi di tener udienza finchè non fosse stata disposta la rimozione dell'ostensione dei crocifissi da tutte le aule giudiziarie, ovvero finchè non fosse permessa l'ostensione di altri simboli religiosi, quali la menorah ebraica.

 

Secondo il ricorrente la Sezione disciplinare non aveva correttamente applicato le suddette norme, che avrebbero dovuto portarla ad affermare che la presenza del crocifisso cattolico in ogni aula di udienza, indipendentemente da quella destinata al magistrato, ed il contestuale divieto di esporre altri simboli religiosi costituiscono giustificato motivo di rifiuto dell'ufficio di magistrato, in quanto per un verso determinano un conflitto inferiore tra il dovere civile di svolgere un pubblico ufficio ed il diritto di rivendicare il rispetto del principio di laicità dello Stato e di libertà di coscienza garantito dalla costituzione e peraltro verso determinano la lesione del diritto di libertà religiosa e di quello di non discriminazione del dipendente che, a causa del divieto di esporre i propri simboli, viene ad essere trattato meno favorevolmente dei dipendenti cattolici, sicchè il comportamento di tale dipendente non è estorsivo nei confronti della P.A., ma concretizza il legittimo esercizio di un diritto di difesa ex art. 24 Cost..

 

4.6. Con il sesto motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 97 e 113 Cost., e degli artt. 2727 e 1362 c.c. e segg., nonchè il vizio motivazionale dell'impugnata sentenza, perchè la stessa ha affermato il principio che la pretesa del magistrato di rimozione dei crocifissi da tutte le aule giudiziarie, anzichè dalla sola aula nella quale veniva chiamato ad esercitare le proprie funzioni, è infondata e priva di tutela giudiziaria, mentre egli aveva la possibilità di tutelare i suoi diritti attraverso la caducazione integrale dell'atto amministrativo generale.

 

Secondo il ricorrente costituisce erronea applicazione degli artt. 1327 e 1362 c.c. e segg., da parte della sentenza impugnata l'aver ritenuto che dalla sentenza del Tar Marche, che disattendeva le sue richieste, egli avrebbe dovuto ricavare la consapevolezza dell'infondatezza delle sue pretese.

 

4.7. Con il settimo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 97 e 101 Cost., e della L. n. 2248 del 1865, artt. 4 e 5, all. e, art. 2, 3,7, 8, 19 e 20 Cost., L. n. 848 del 1955, art. 14, D.Lgs. n. 216 del 2003, art. 2, L. n. 654 del 1975, art. 3, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 43, della L. n. 654 del 1975, art. 3, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 43, L. n. 302 del 1997, artt. 1, 4, 5, 6, 7 e 8, L. n. 101 del 1989, art. 2; art. 1,9,13 e 17 Convenzione dei diritti dell'Uomo, art. 52 e 54 c.p., e 2044 e 2045 c.c., nonchè il vizio motivazionale della sentenza.

 

Assume il ricorrente che viola le suddette norme la sentenza della Sezione disciplinare che ha ritenuto che era valido rimedio a tutela dei diritti inviolabili di libertà religiosa e di coscienza la disposizione del presidente del tribunale di Camerino, che aveva disposto la rimozione del crocefisso da una sola aula, mentre la disapplicazione della circolare ministeriale n. 2134/1867 del 29.5.1926 doveva essere effettuata con portata generale e nel corso di un giudizio e non al di fuori dello stesso, con funzione di deroga per un singolo caso. Secondo il ricorrente doveva essere vietata l'esposizione del crocefisso in ogni aula del tribunale, indipendentemente da quella destinata al magistrato, perchè altrimenti ciò creava un conflitto interno al magistrato e contemporaneamente una discriminazione diretta del dipendente magistrato che utilizza tale aula e una lesione del di ritto di libertà religiosa per la non necessità di dover dimostrare la propria fede, con un'inevitabile pubblicizzazione dei propri convincimenti religiosi.

 

4.8. Con l'ottavo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione della L. n. 689 del 1981, art. 3, e dell'art. 5 c.p., nonchè il vizio motivazionale dell'impugnata sentenza per non aver reso alcuna motivazione in merito alla richiesta applicazione dei principi fissati nella sentenza penale n. 4273/2000, in tema di legittimo rifiuto dell'ufficio di scrutatore di seggio elettorale.

 

5. Tutti i suddetti motivi vanno esaminati congiuntamente, essendo strettamente connessi.

 

Essi sono in parte inammissibili ed in parte infondati. Va, anzitutto, rilevato che, come chiaramente affermato dalla sentenza impugnata, l'oggetto dell'incolpazione, e quindi del giudizio disciplinare, non era l'accertamento della liceità della presenza del crocefisso in tutte le aule giudiziarie, ma più semplicemente la legittimità della reiterata sottrazione del dr. T. ai suoi doveri di ufficio di prestare l'attività giudiziale, a cui era tenuto (pag. 7). Specifica altresì la Sezione che (pag. 14) l'oggetto del giudizio non è stata "la verifica della compatibilità della laicità dello Stato e di libertà religiosa da una parte e la collocazione del crocefisso nelle aule di giustizia della nazione, ma la compatibilità del rifiuto del dr. T. di tenere udienza - determinato dal fatto che in altro luogo e nello stesso o in altro momento la giustizia sia amministrata in presenza di un simbolo religioso - ed il rispetto delle regole organizzative del servizio, dei doveri del magistrato e delle esigenze funzionali".

 

La Sezione, quindi, conclude che nella specie "la presenza del crocefisso nelle aule giudiziarie, indipendentemente dalla legittimità della norma regolamentare che la prevede, non determina in , per il solo fatto di essere generalmente osservata, una lesione del diritto soggettivo di libertà religiosa e di opinione del dr. T., che potrebbe essere messo in discussione solo se gli fosse imposto l'obbligo di esercitare la giurisdizione sotto la sua tutela simbolica".

 

In altri termini la Sezione correttamente non pone assolutamente in dubbio il principio di laicità dello Stato.

 

6.1. Al riguardo più volte la Corte costituzionale ha riconosciuto nella laicità un principio supremo del nostro ordinamento costituzionale, idoneo a risolvere talune questioni di legittimità costituzionale (ad esempio, tra le tante pronunce, quelle riguardanti norme sull'obbligatorietà dell'insegnamento religioso nella scuola, o sulla competenza giurisdizionale per le cause concernenti la validità del vincolo matrimoniale contratto canonicamente e trascritto nei registri dello stato civile). Trattasi di un principio non proclamato expressis verbis dalla nostra Carta fondamentale; un principio che, ricco di assonanze ideologiche e di una storia controversa, assume però rilevanza giuridica potendo evincersi dalle norme fondamentali del nostro ordinamento. In realtà la Corte lo trae specificamente dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 Cost..

 

Il principio utilizza un simbolo linguistico ("laicità") che indica in forma abbreviata profili significativi di quanto disposto dalle anzidette norme, i cui contenuti individuano le condizioni di uso secondo le quali esso va inteso ed opera. D'altra parte, senza l'individuazione di tali specifiche condizioni d'uso, il principio di "laicità" resterebbe confinato nelle dispute ideologiche e sarebbe difficilmente utilizzabile in sede giuridica (cfr. Corte cost., ordinanza n. 389 del 2004).

 

6.2. Sennonchè la Sezione disciplinare non ha ritenuto la responsabilità del dr. T., perchè si era rifiutato di fare udienza in un'aula ove fosse esposto il crocifisso: anzi ha specificato che solo in questo caso, e cioè se gli fosse stato imposto di esercitare la giurisdizione sotto la tutela simbolica del crocifisso, ciò poteva mettere in discussione il suo diritto soggettivo di libertà religiosa e di opinione.

 

Ne consegue che tutte le censure mosse dal ricorrente in merito alla tutela del suo diritto di libertà religiosa, di opinione e di coscienza, nonchè, in generale in merito ai diritti inviolabili della sua persona umana (assolutamente non disconosciuti dalla sentenza impugnata), sono inconferenti nella fattispecie, in quanto la Sezione ha cura di specificare che il fatto, posto a base della sua sentenza e da lei accertato, attiene esclusivamente all'ipotesi di rifiuto di prestare l'attività giudiziale da parte del dr. T. a decorrere dal maggio 2005, (pag. 22) pur in presenza della possibilità di tenere udienza in altra stanza (il suo ufficio, come formalmente consigliato dal presidente del Tribunale) o poco dopo nell'aula senza crocifisso, in cui tale lesione non era ipotizzabile.

 

6.3. Sotto questo profilo,quindi, i motivi, nella parte in cui attengono alla pretesa violazione diretta dei diritti inviolabili del dr. T., per la presenza del crocefisso nell'aula di udienza del ricorrente (con la prospettazione di tale giustificazione del rifiuto), sono inammissibili, poichè non è in merito a questi fatti che la Sezione ha fondato la sentenza di colpevolezza.

 

6.4. La consolidata giurisprudenza di questa Corte ha, infatti, statuito che la proposizione, con il ricorso per cassazione, di censure prive di specifiche attinenze al "decisum" della sentenza impugnata è assimilabile alla mancata enunciazione dei motivi richiesti dall'art. 366 c.p.c., n. 4, con conseguente inammissibilità del ricorso, rilevabile anche d'ufficio (ex multis, Cass. 07/11/2005, n. 21490; Cass. 24/02/2004, n. 3612; Cass. 23/05/2001, n. 7046).

 

L'inconferenza del motivo comporta che l'eventuale accoglimento della censura risulta comunque privo di rilevanza nella fattispecie, in quanto inidoneo a risolvere la questione decisa con la sentenza impugnata (Cass. Sez. Unite, 12/05/2008, n. 11650).

 

6.5. Sono invece, infondati, i ricorsi relativamente alla pretesa violazione dei suddetti principi di libertà religiosa di opinione e di coscienza in relazione al punto che il rimedio adottato dell'aula senza crocefisso finiva per "ghettizzare" il ricorrente. La possibilità di lesione della libertà religiosa sotto questo profilo rimane esclusa dal rilievo che l'aula attrezzata senza crocifisso era messa a disposizione di quanti volessero utilizzarla.

 

La Sezione ha infatti ritenuto con valutazione di fatto rientrante nelle esclusive sue competenze di valutazione del merito, che tale aula (priva del crocefisso) era di pari dignità delle altre e non comportava alcuna discriminazione (pag. 21).

 

6.6. Manifestamente infondata è anche la censura per cui il rifiuto del ricorrente di tenere udienza era giustificato dalla mancata autorizzaizione ad esporre nelle aule giudiziarie la menorah, simbolo della religione ebraica.

 

Per poter accogliere tale pretesa, come correttamente rilevato dalla sentenza impugnata, è necessaria una scelta discrezionale del legislatore, che allo stato non sussiste.

 

E' vero che sul piano teorico il principio di laicità è compatibile sia con un modello di equiparazione verso l'alto (laicità per addizione) che consenta ad ogni soggetto di vedere rappresentati nei luoghi pubblici i simboli della propria religione, sia con un modello di equiparazione verso il basso (laicità per sottrazione).

 

Tale scelta legislativa, però, presuppone che siano valutati una pluralità di profili, primi tra tutti la praticabilità concreta ed il bilanciamento tra l'esercizio della libertà religiosa da parte degli utenti di un luogo pubblico con l'analogo esercizio della libertà religiosa negativa da parte dell'ateo o del non credente, nonchè il bilanciamento tra garanzia del pluralismo e possibili conflitti tra una pluralità di identità religiose tra loro incompatibili.

 

6.7. La Sezione ha ritenuto, invece, che il comportamento del dr. T. fosse sanzionabile in sede disciplinare, con un iter argomentativo immune dalle censure che sono poste nei vari motivi.

 

Sul presupposto fattuale che il dr. T. poteva svolgere le sue funzioni o in altra stanza priva di simboli religiosi (quale il suo ufficio, consigliatogli dal presidente del Tribunale) ovvero in una stanza appositamente attrezzata, la Sezione ha escluso che nella fattispecie si potesse avere una lesione del diritto fondamentale di libertà di religione e di coscienza e di opinione del dr. T..

 

7.1. Il nucleo centrale dell'affermazione della responsabilità disciplinare del dr. T. è fondato sul fatto che egli si sia sottratto all'esercizio dell'attività giurisdizionale ingiustificatamente, allorchè egli aveva la possibilità di esercitare le sue funzioni in ambienti in cui non era affisso il crocifisso.

 

Il problema che si è posto la Sezione è se il rifiuto dell'attività anche in tali aule da parte del dr. T. fosse giustificato dal fatto che in varie altre aule giudiziarie del Paese vi fosse l'ostensione del Crocefisso, con lesione del principio di laicità dello Stato, e conseguentemente dei diritti di libertà religiosa e di coscienza degli individui, affermato dalla Costituzione, dalle convenzioni internazionali e dalle Corti, anche internazionali.

 

Correttamente la Sezione ritiene che il ricorrente non potesse addurre a giustificazione del rifiuto delle funzioni giurisdizionali il fatto di principio che nelle altre aule giudiziarie del Paese vi fossero crocifissi.

 

La soluzione del problema passa attraverso l'istituto della tutela privata di diritti propri, di diritti altrui e degli interessi diffusi.

 

7.2. Anzitutto in materia di rapporto di lavoro, sia pubblico che privato, si è affermato v colui che è tenuto alla prestazione lavorativa in determinati casi possa rifiutare la stessa allorchè tale rifiuto si caratterizzi come forma di legittimo esercizio di autotutela del lavoratore a fronte di inadempimenti da parte del datore di lavoro, e quindi nella stessa ottica di cui all'art. 1460 c.c., (Cass. 03/05/2004, n. 8364),segnatamente quando tali inadempimenti investano diritti inviolabili dell'uomo er quindi, costituzionalmente garantiti (ad es. quello alla salute: Cass. 17/12/1997, n. 12773).

 

L'autotutela costituita dal rifiuto della prestazione lavorativa in presenza della violazione di diritti fondamentali del soggetto, che deve effettuare la prestazione lavorativa, costituisce una cosiddetta "autotutela passiva reattiva". Essa consiste in un comportamento di dichiarata inadempienza, che sarebbe in illegittimo (o addirittura illecito), ma che si assume legittimato dall'accertata inadempienza della controparte.

 

Esso è in funzione della reciprocità su cui i rapporti sinallagmatici sono imperniati.

 

La disciplina dei poteri di autotutela discende dai precetti sanzionatori che si inquadrano, mercè il loro carattere permissivo e senza possibilità di estensione analogica, nell'ordine statale costituzionale e comunitario. Tali precetti, in previsione di date circostanze, autorizzano il singolo a tenere un comportamento che solo in quelle circostanze riconosce legittimo, e che costituisce la difesa di un suo diritto minacciato.

 

7.3. Le varie forme di iniziativa in cui l'autotutela (intesa come difesa extragiudiziale) può legittimamente esplicarsi sono oggetto di poteri-mezzi, coordinati al diritto da tutelare. Essa, quindi, presuppone anzitutto che sussista la posizione soggettiva di titolarità del diritto tutelato (anche se in casi determinati l'ordinamento riconosce la possibilità di agire per la tutela di un diritto di altro soggetto) ed inoltre che tale autotutela si ispiri a crìteri di idoneità e di proporzionalità tra la minaccia al diritto e la reazione.

 

Se il diritto minacciato è un diritto inviolabile (e come tale costituzionalmente garantito) del soggetto tenuto alla prestazione lavorativa (in senso ampio), non vi è dubbio che il titolare dello stesso possa espletare l'autotutela e che questa possa manifestarsi anche attraverso il rifiuto della prestazione lavorativa, allorchè tale rifiuto è idoneo ed adeguato ad evitare la lesione del diritto fondamentale oggettivamente minacciato, lesione non altrimenti evitabile (ovvero evitabile in modo eccessivamente oneroso).

 

7.4. Il problema sorge allorchè, come nella fattispecie, il rifiuto della prestazione lavorativa si pone non a fronte della lesione di un diritto inviolabile del soggetto tenuto alla prestazione, ma di un interesse collettivo o diffuso.

 

Più specificamente e con riguardo alla fattispecie in esame, poichè l'astensione dall'attività giurisdizionale dovuta costituisce pacificamente un illecito disciplinare se non è giustificata, e poichè la Sezione disciplinare ha escluso in fatto che una lesione del diritto soggettivo della libertà religiosa, di coscienza e di opinione vi fosse (essendo possibile utilizzare un ufficio ed aula senza il crocifisso), il problema che si pone è se, a giustificazione del rifiuto, il dr. T. poteva far valere il generale principio della laicità dello Stato per la presenza del crocefisso nelle aule di giustizia della Nazione ovvero la lesione della libertà religiosa o di pensiero di altri soggetti che partecipavano alle udienze in altre aule giudiziarie,in cui era esposto il crocefisso.

 

7.5. Va, anzitutto, escluso per i motivi predetti che il dr. T. potesse far valere con il suo comportamento la tutela dei predetti diritti di altri soggetti e ciò per due ordini di ragioni.

 

Anche quando l'ordinamento riconosce il diritto di intervenire direttamente ed in via extragiudiziale per la tutela di diritti di altri, occorre anzitutto che tali "altri" siano determinati o quanto meno determinabili (non essendo possibile una tutela in incertam personam). Tutta la disciplina della tutela extragiudiziale di diritti altrui è strutturata sulla concretezza ed attualità e non sulla mera ipotizzabilità della messa in pericolo del diritto (cfr. art. 52 c.p.).

 

Quindi, anzitutto, occorre che il titolare del diritto inviolabile minacciato non abbia prestato, sia pure implicitamente, il proprio libero e legittimo consenso a tale situazione (ovviamente nei limiti della disponibilità del diritto, cfr. art. 50 c.p.). Deve, infatti, essere chiaro che la tutela di un diritto di altri, che trova il suo più profondo referente nei doveri di solidarietà alla base della convivenza civile (art. 2 Cost.), ha sempre come presupposto che il titolare del diritto sia nell'impossibilità (intesa nel senso più ampio) di attuare personalmente detta tutela, per cui il soggetto che agisce in sua vece lo faccia sulla base di un consenso almeno presunto. Questo concetto è stato idoneamente sviluppato, sia pure con riferimento al più ristretto e limitato campo dei rapporti patrimoniali in tema di gestione di affari altrui (cfr. art. 2028 c.c.), ritenendo la stessa lecita non solo in ipotesi di absentia domini, ma anche allorchè il dominus versi in una situazione soggettiva o oggettiva da far presumere che egli non rifiuti tale ingerenza altrui nella tutela dei suoi diritti (art. 2028, Cass. 09/04/2008, n. 9269).

 

Inoltre tale tutela in forma extragiudiziale è ammessa solo allorchè il diritto altrui sia minacciato da un'offesa ingiusta. La presenza di un crocefisso può non costituire necessariamente minaccia ai propri diritti di libertà religiosa per tutti quelli che frequentano un'aula di giustizia per i più svariati motivi e non solo necessariamente per essere tali utenti dei cristiani, con la conseguenza che, per la mancanza dei requisiti sopra elencati in tema di tutela privata di diritti altrui, l'incolpato non avrebbe potuto rifiutare la propria prestazione professionale solo perchè in altre aule di giustizia (rispetto a quella in cui egli operava) era presente il crocifisso, con l'ipotizzata lesione dei diritti di libertà religiosa e di coscienza degli utenti di quelle aule.

 

7.6. Ne consegue che, escluso che il rifiuto del dr. T. di tenere udienze anche in aule senza simboli religiosi, potesse giustificarsi per la presenza dei crocifissi in varie altre aule del Paese, come forma di tutela dei diritti inviolabili di coloro che frequentavano queste ultime aule, va solo esaminato se tale rifiuto era giustificabile in quanto effettuato per la tutela del principio della laicità dello Stato.

 

La laicità dello Stato, sotto il profilo qui in considerazione, rappresenta un interesse collettivo o diffuso, e come tale adespota perchè facente capo alla popolazione nel suo complesso.

 

Indipendentemente dal punto se sussista una differenza tra interesse diffuso ed interesse collettivo (come sostenuto da una corrente dottrinale minoritaria, per cui i secondi riguarderebbe non l'intera collettività, ma solo gruppi organizzati),secondo la dottrina maggioritaria gli interessi diffusi costituiscono un tertiam genus tra diritti soggettivi ed interessi legittimi, rappresentando una sorta di "diritto sociale" o della collettività, perchè avente ad oggetto una relazione sociale, che non riguarda gli individui privati in senso stretto, gli apparati pubblici, ma si appunta sulla collettività in quanto tale.

 

Il problema più delicato, in materia di interessi diffusi, è quindi quello dell'"azionabilità" degli stessi in giudizio e della "rappresentatività degli stessi", sotto il profilo della legittimazione ad agire.

 

7.7. Proprio per la suddetta natura degli interessi diffusi, la tutela degli stessi è affidata agli enti esponenziali della collettività nel suo complesso, salvo che la tutela non sia anche rimessa ad associazioni o enti collettivi in specìfiche ipotesi previste dalla legge (L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 9, L. 8 luglio 1986, n. 349, art. 18).

 

Segnatamente non è possibile per il singolo assumere la tutela e la rappresentanza di interessi diffusi o collettivi in antitesi con il soggetto esponenziale e, quindi, in funzione dell'esercizio strumentale dell'azione popolare, al di fuori dei casi in cui essa è ammessa nel nostro ordinamento.

 

Tuttavia la condivisibile giurisprudenza di questa Corte (Cass. S.U. n. 2207/1978; Cass. S.U. n. 1463/1979) ha ritenuto che sono configurabili accanto agli interessi cosiddetti diffusi, da parte di collettività unitariamente considerate, anche la titolarità di interessi individuali, da parte dei singoli coinvolti dal procedimento stesso. Tali ultimi interessi hanno natura e consistenza di veri e propri diritti soggettivi, quando riguardino la tutela del bene della salute, non disponibile e non degradabile per l'intervento dell'amministrazione, ovvero la tutela di disponibilità esclusive di determinati beni, i quali traggano dall'ambiente il loro pregio e la loro potenzialità economica e, quindi, potrebbero venire sostanzialmente perduti per effetto delle scelte concretamente adottate per detta ubicazione. Eguale discorso va fatto per tutti gli altri interessi diffusi che si concretino, in relazione ai singoli soggetti e nelle specifiche fattispecie, in diritti soggettivi della persona umana. In questo caso il titolare di ogni singolo diritto soggettivo inviolabile leso ha azione per la sua tutela.

 

7.8. Da ciò consegue che, mentre la lesione di un proprio diritto soggettivo inviolabile può essere fatta valere nell'ambito del rapporto di impiego anche in via di autotutela e, quindi, come causa giustificativa del rifiuto della prestazione lavorativa, allorchè tale lesione del diritto soggettivo è esclusa, non può essere fatta valere, come causa giustificante, la lesione di un interesse diffuso.

 

Nella fattispecie, poichè la Sezione disciplinare ha affermato la responsabilità del Dr. T. solo in relazione ai disservizi verificatisi per il rifiuto di tenere udienze in stanze o aule prive del crocifisso,e quindi in situazioni che - secondo l'accertamento fattuale della Sezione - non potevano comportare la lesione del suo diritto di libertà religiosa, di coscienza o di opinione, non può intentare causa giustificante di tale rifiuto la pretesa tutela della laicità dello Stato o dei diritti di libertà religiosa degli altri soggetti che si trovavano nelle altre aule di giustizia della Nazione, in cui il crocefisso era esposto.

 

8. Infondata è anche la censura secondo cui in ogni caso i rifiuti di tenere udienza addebitabili sarebbero solo quelli successivi alla predisposizione dell'aula senza crocifisso.

 

A parte il rilievo che già prima della predisposizione dell'aula in questione vi era la possibilità di tenere udienza nel proprio ufficio, va osservato che nell'economia dell'affermazione della responsabilità disciplinare da parte della sentenza impugnata, non rileva il numero di udienze non tenute ingiustificatamente. Infatti la Sezione ha rilevato che a partire dall'ultimatum effettuato all'Amministrazione giudiziaria l'1.5.2005 il dr. T. ha cessato del tutto di tenere udienza. La Sezione ha rilevato in punto di fatto la totale sottrazione del dr. T. all'attività di servizio dal maggio 2005 al gennaio 2006; che egli non aveva intenzione neppure di attenuare le ricadute negative della "sfida" da lui lanciata all'amministrazione, tanto che ebbe ad opporsi decisamente alle modifiche nella distribuzione degli affari, che gli destinavano una maggiore quantità di lavoro in attività (giudice tutelare e riscorsi per d.i.), che non richiedevano la ritualità della aula di udienza.

 

9. Quanto alla censura della mancata applicazione dei principi di cui alla sentenza penale n. 4273/2000, va osservato che essa è infondata.

 

La richiamata sentenza della cassazione penale n. 4273/2000, statuisce che "costituisce giustificato motivo di rifiuto dell'ufficio di presidente, scrutatore o segretario di seggio elettorale - ove non sia stato l'agente a domandare di essere ad esso designato - la manifestazione della libertà di coscienza, il cui esercizio determini un conflitto tra la personale adesione al principio supremo di laicità dello Stato e l'adempimento dell'incarico a causa dell'organizzazione elettorale in relazione alla presenza nella dotazione obbligatoria di arredi destinati a seggi elettorali, pur se casualmente non di quello di specifica destinazione, del crocifisso o di altre immagini religiose".

 

9.2. Per quanto la Sezione non abbia preso espressa posizione nei confronti della sentenza penale n. 4273/2000 (ma a tanto non era tenuta in quanto essa costituiva solo un precedente in fattispecie apparentemente analoga, e peraltro difforme da Cass. Pen. sez. 3^, 13.10.1998 n. 10, contro lo stesso imputato e per fatto identico), va osservato che essa ha esaminato il fondo del problema, comune alle due fattispecie, ed ha ritenuto che "la possibilità per il dr. T. di tenere tranquillamente udienza, in condizioni di piena legittimazione anche sociale, in un'aula priva di simboli religiosi rompe qualsiasi nesso tra l'esercizio in concreto delle funzioni e la violazione del suo fondamentale diritto di libertà religiosa (o di libertà di religione) asseritamente derivante dalla presenza, altrove, di un crocefisso".

 

10. Tale passaggio argomentativo della sentenza impugnata non presenta vizi di natura giuridico-logica.

 

Pur nell'ottica del ricorrente e cioè che l'estensione del crocifisso pregiudichi la libertà religiosa e di coscienza, correttamente la sentenza impugnata ha ritenuto che la presenza del crocefisso può ledere il diritto di libertà religiosa solo se si trova nell'aula in cui egli svolge la sua attività giurisdizionale.

 

Esattamente la decisione impugnata ha risolto il conflitto tra l'obbligo della prestazione professionale ed il diritto di libertà religiosa e di coscienza, assicurando prevalenza a quest'ultimo, soltanto quando le modalità dell'esercizio dovuto delle funzioni contrastano con l'espressione delle libertà stesse in modo diretto e con vincolo di causalità immediata (questo era stato, in sostanza, anche il principio affermato da Cass. Pen. n. 10/1998, cit.).

 

Se invece l'ostensione del crocifisso è effettuata in altre aule giudiziarie della Nazione, rispetto a quelle dove il dr. T. avrebbe dovuto esercitare le funzioni giurisdizionali, ciò non può integrare lesione del diritto di libertà religiosa del ricorrente.

 

11. Con il nono motivo di ricorso il ricorrente lamenta la nullità della sentenza per violazione dell'art. 477 c.p.c. 1930, cioè per vizio di extrapetizione, nonchè nullità della sentenza per violazione dell'art. 112 c.p.c., omessa motivazione. Violazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 20; R.D. n. 511 del 1946, art. 29, art. 2909 c.c., e art. 324 c.p.c.; artt. 13324, 1334 e 1335 c.c., nonchè artt. 24 e 111 Cost., e art. 6 Convenzione sui diritti dell'uomo.

 

Infine il ricorrente lamenta il vizio motivazionale.

 

Secondo il ricorrente la sentenza impugnata è incorsa nella violazione dell'art. 477 c.p.p., cioè in vizio di extrapetizione, perchè, essendo egli stato tratto a giudizio per aver presentato delle dichiarazioni di astensione lo stesso giorno o in prossimità dell'udienza, era stato condannato sulla base del diverso assunto che egli, pur avendo manifestato l'irremovibile volontà di astenersi dall'udienza con la dichiarazione iniziale dell'1.5.2005, avrebbe dovuto in ogni caso confermare tale rifiuto in occasione delle singole udienze: secondo il ricorrente tale assunto della Sezione, in presenza dell'atto unilaterale di volontà consistente nella dichiarazione di astensione non necessitava di ulteriori dichiarazioni confermative, fino a revoca,per cui la contraria opinione della Sezione violava gli artt. 1324, 1334 e 1335 c.c..

 

Secondo il ricorrente l'assunto della Sezione, che considerava le comunicazioni effettuate in corrispondenza delle udienze, con cui si dava contezza dell'avvenuta astensione, come comunicazioni di volersi astenere e non di astensione già avvenuta, comportava la violazione dell'art. 1362 c.p.c. e segg..

 

2.1. Il motivo è infondato.

 

Con riferimento al principio di correlazione fra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l'ipotesi astratta prevista dalla legge, si da pervenire ad un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l'indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perchè, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l'"iter" del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione (Cass. pen., Sez. Unite, 19/06/1996, n. 16).

 

12.2. Nella fattispecie, come correttamente rilevato dalla Sezione, in assenza di un impedimento legittimo a tenere le udienze, ed alla luce dei reiterati inviti diretti alla prosecuzione dell'attività giudiziaria, la sostituzione per una pluralità indeterminata di udienza necessitava di volta in volta di verifiche e di una conferma, in quanto il dr. T. poteva sempre desistere dai propri propositi e, quindi, riprendere l'attività. Ne consegue che il principio di correlazione tra accusa e sentenza di cui all'art. 477 c.p.p. 1930 ed all'art. 521 c.p.p. 1989 non risulta violato, poichè il fatto ritenuto in sentenza si trova rispetto a quello contestato non in rapporto di eterogeneità, nel senso che si sia realizzata una variazione essenziale dell'addebito, rispetto alla quale l'incolpato non è stato in grado di difendersi.

 

Tra il fatto contestato e quello ritenuto, vi è il nucleo comune di aver determinato il disservizio organizzativo per le sostituzioni.

 

Inoltre e in ogni caso il dr. T. è stato in grado di difendersi in relazione a questa modifica dell'incolpazione tant'è che sul punto dell'irritualità di tale modifica della contestazione il dr. T. si è difeso davanti alla stessa Sezione e la sentenza motiva il suo dissenso da tale difesa.

 

12.3. Infondata è la ritenuta violazione degli artt. 1324, 1334 e 1335 c.c., nonchè dell'art. 1362 e segg. attinenti alla regolamentazione dei rapporti di contenuto patrimoniale e tra privati.

 

In ogni caso la Sezione non ha ritenuto che il Dr. T. non avesse dato comunicazione della volontà di astenersi, ma ha solo ritenuto che egli dovesse anche confermare per ogni singola udienza tale sua volontà, in quanto aveva sempre la possibilità di ripristinare il suo servizio.

 

Se poi le comunicazioni di avvenuta astensione fossero solo una dichiarazione di scienza di un fatto già avvenuto, come sostiene il ricorrente oppure una dichiarazione di volontà di astenersi dall'udienza, come sostenuto dalla Sezione, non è rilevante nella fattispecie, una volta ritenuto che il dr. T. avrebbe dovuto riconfermare l'astensione per ogni singola udienza, potendo sempre egli ripristinare la regolarità delle udienze, pur a fronte di una generale dichiarazione di astensione.

 

13. Con il decimo motivo di ricorso il ricorrente lamenta l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione per avere la Sezione connotato di negatività il rifiuto del dr. T. di tenere le udienze, asserendo che tale comportamento è stato effettuato per mere questioni di principio e che ha mostrato faziosità e scarso equilibrio e che ha imposto soluzioni arbitrarie per imporre la soluzione voluta. Il ricorrente lamenta che la Sezione ha applicato la sanzione della rimozione, con funzione di "prevenzione speciale", cioè tenendo conto della prevedibile ed immediata reiterazione delle medesime condotte, in caso di riattribuzione delle funzioni.

 

14.1.11 motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato. Il vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione denuncìabile con ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 5, si configura solo quando nel ragionamento del giudice di merito sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili di ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della sentenza. Detti vizi non possono, peraltro, consistere nella difformità dell'apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, perchè spetta solo a quel giudice individuare le fonti del proprio convincimento e a tale fine valutare le prove, controllarne l'attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all'uno o all'altro mezzo di prova (Cass. 20/08/2003, n. 12216).

 

In effetti la censura sollecita una diversa lettura e valutazione delle risultanze di causa, rispetto a quella datane dalla Sezione disciplinare e sotto questo profilo è inammissibile.

 

14.2. Quanto alla censura secondo cui erroneamente la Sezione avrebbe individuato la sanzione della rimozione per evitare che l'incolpato reiterasse il comportamento di rifiuto ingiustificato, va osservato che, in tema di procedimento disciplinare a carico di magistrati, alle Sezioni Unite della S.C. non è consentito sindacare sul piano del merito le valutazioni del giudice disciplinare, dovendo la Corte medesima limitarsi ad esprimere un giudizio sulla congruità, sulla adeguatezza e sulla assenza di vizi logici della motivazione che sorregge la decisione finale (Cass. Sez. Unite, 19/09/2005, n. 18451).

 

In particolare la valutazione della gravità dell'illecito, anche in ordine al riflesso del fatto oggetto dell'incolpazione sulla stima del magistrato, sul prestigio della funzione esercitata e sulla fiducia nell'istituzione, e la determinazione della sanzione adeguata - nel caso di specie, la rimozione - rientrano negli apprezzamenti di merito attribuiti alla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, il cui giudizio è insindacabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione congrua e immune da vizi logico-giuridici (Cass. Civ., Sez. Unite, 08/04/2009, n. 8615).

 

14.3. Nella fattispecie la motivazione adottata immune da vizi logici o giuridici rilevabili in questa sede di sindacato di legittimità.

 

Segnatamente, essendo il procedimento disciplinare finalizzato agli accertamenti degli illeciti ad alla applicazione della competente sanzione, nell'applicazione di quest'ultima esso si ispira agli stessi criteri, a cui si ispirano gli altri sistemi sanzionatori.

 

Nella determinazione del trattamento sanzionatorìo il giudice gode di una discrezionalità vincolata, per cui deve dar ragione dei criteri legali che sono sintetizzabili nella retribuzione (gravità complessiva del fatto) e nella prevenzione (in termine di attitudine dell'incolpato a reiterare l'illecito disciplinare) (argomentando anche da quanto emerge dall'art. 133 c.p., relativo al principale sistema sanzionatorio; (Cass. Pen., 18/05/1990, Sterlino, Cass. Pen., 14/09/1990, Dimino).

 

14.4. Conseguentemente, è immune da difetto motivazionale l'impugnata sentenza che nella determinazione della sanzione della rimozione, ha tenuto conto della gravità del fatto, dei precedenti disciplinari del dr. T. (n. 3 ammonimenti e n. 1 censura), nonchè della prevedibile ed immediata reiterazione delle medesime condotte, in caso di riattribuzione delle funzioni. A tal fine la Sezione osserva che l'incolpato aveva esplicitamente dichiarato che non avrebbe deflesso da tale comportamento neanche in futuro, se gli fosse stata data occasione di rinnovare, con la restituzione delle funzioni, il rifiuto di esercitarle.

 

15. Con l'undicesimo motivo di ricorso il ricorrente lamenta l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza, per aver ritenuto che le osservazioni mosse avverso l'assegnazione delle funzioni di giudice tutelare trovassero spiegazione nel non attenuare le ricadute negative del rifiuto di tenere udienza, mentre tale ricostruzione dei fatti è falsa, poichè egli aveva motivato la vera spiegazione delle osservazioni mosse e consistenti nel non essere marginalizzato nell'espletamento di mansioni di scarso impegno professionale.

 

16. Il motivo è inammissibile, poichè esso attiene alla valutazione dei fatti e comportamenti, effettuata dalla Sezione: da una parte l'assegnazione delle funzioni di giudice tutelare e di tutti i ricorsi per decreto ingiuntivo e dall'altra le contrarie osservazioni in merito espresse dal dr. T..

 

Su tali fatti la Sezione ha ritenuto di esprimere una valutazione diversa da quella del ricorrente, ma essa, non presentando vizi di omissione, contraddittorietà o insufficienza di motivazione, non è censurabile in questa sede di sindacato della sola legittimità.

 

17. Con il dodicesimo motivo il ricorrente lamenta la nullità della sentenza per violazione dell'art. 477 c.p. 1930 (artt. 522 e 178 c.p. 1989) e artt. 24 e 111 Cost., e degli artt. 6 e 13 della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, ratificata con L. n. 848 del 1955, nonchè il vizio motivazionale dell'impugnata sentenza.

 

Il ricorrente lamenta l'extrapetizione della sentenza per aver affermato che egli aveva mostrato "faziosità, aggressività verbale e scarso equilibrio, andando alla ricerca di reazioni decise attraverso iniziative provocatorie, quale l'ostensione della pera metallica, strumento di tortura dell'inquisizione, durante un dibattimento.

 

Assume il ricorrente che tutto ciò non gli sarebbe stato contestato, con conseguente nullità della sentenza.

 

18.1. Il motivo è infondato.

 

Anzitutto osserva questa Corte che non sussiste la violazione del principio di omessa correlazione tra accusa e sentenza di cui all'art. 477 c.p. 1930 (ed artt. 521 e 522 c.p.p. 1989) in relazione al riferimento all'ostensione in udienza dello strumento di tortura dell'inquisizione (la pera di ferro).

 

Infatti il T. non è stato ritenuto colpevole di un illecito concretizzantesi in questo episodio, ma, ferma l'imputazione ascritta del disservizio causato ingiustificatamente con il rifiuto di esercizio dell'attività giurisdizionale, anche dopo che era stata predisposta un'aula priva di crocefisso, la Sezione stigmatizza il suo comportamento di "iniziative provocatorie" nel tenere questa condotta, quale quella dell'ostensione in udienza della pera di ferro).

 

Si tratta quindi di una modalità di dettaglio della condotta ascritta.

 

18.2. La giurisprudenza penale ha statuito in proposito che l'immutazione del fatto di rilievo, ai fini della eventuale applicabilità della norma dell'art. 521 c.p.p., è solo quella che modifica radicalmente la struttura della contestazione, in quanto sostituisce il fatto tipico, il nesso di causalità e l'elemento psicologico del reato, e, per conseguenza di essa, l'azione realizzata risulta completamente diversa da quella contestata, al punto da essere incompatibile con le difese apprestate dall'imputato per discolparsene. Non può parlarsi di immutazione del fatto quando il fatto tipico rimane identico a quello contestato nei suoi elementi essenziali e cambiano solo in taluni dettagli le modalità di realizzazione della condotta (Cass. Pen., Sez. 1^, 14/04/1999, n. 6302).

 

18.3. Quanto, invece, alle altre circostanze oggetto del motivo di ricorso, esse non attengono alla contestazione di altri fatti diversi rispetto a quelli oggetto dell'incolpazione, ma sono valutazioni effettuate dalla corte in merito al comportamento tenuto dall'incolpato nel corso del perfezionamento dell'illecito disciplinare contestato.

 

Trattandosi di valutazioni sulla condotta dell'incolpato, esse non potevano costituire oggetto della contestazione, ma attenevano necessariamente al momento decisionale, deputato a tale attività valutativa.

 

19. Con il tredicesimo motivo il ricorrente ha lamentato la nullità della sentenza per violazione dell'art. 477 c.p.p. 1930, e artt. 522 e 178 c.p.p. 1989, in relazione agli artt. 112 e 111 Cost., e dell'art. 6 della convenzione per i diritti dell'uomo, nonchè motivazione omessa o insufficiente (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5).

 

Lamenta il ricorrente che la Sezione disciplinare non ha esaminato la sua tesi difensiva (qualificata come propria proposta mediatoria), secondo cui ingiustificatamente non era stata accolta la sua richiesta di esporre, accanto al crocifisso anche il simbolo del sua religione ebraica, e cioè la menorah.

 

20.1. Il motivo è in parte infondato ed in parte inammissibile. E' infondato poichè la sentenza sul punto si riporta a quanto esposto dall'ordinanza di sospensione cautelare, facendolo evidentemente proprio, secondo cui "tale pretesa per poter essere accolta richiede che il legislatore compia scelte discrezionali che allo stato non sono state compiute" (pag. 20 della sentenza). Me consegue che non sussiste l'omissione di pronunzia su una tesi difensiva del dr. T..

 

20.2. Il motivo è invece inammissibile nella parte in cui censura punti dell'ordinanza di sospensione cautelare, non trasfusi nella sentenza impugnata.

 

Infatti l'impugnazione attiene esclusivamente alla sentenza della Sezione disciplinare e non all'ordinanza cautelare, con la conseguenza che solo quest'ultima può essere oggetto di censura.

 

Solo in relazione ai punti dell'ordinanza, che siano stati fatti propri dalla sentenza, possono proporsi censure, ma quali punti (ormai) della sentenza, che presentino vizi giuridici o logici.

 

21. Il ricorso va, pertanto rigettato. Nulla per le spese.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso proposto personalmente dal ricorrente e depositato in cancelleria il 20.9.2010. Rigetta il ricorso proposto dai difensori del ricorrente e notificato l'11 ottobre 2010.

 

Nulla per le spese del giudizio di cassazione.

 

Così deciso in Roma, il 8 febbraio 2011.

 

Depositata in Cancelleria il 14 marzo 2011.